Personaggi

Si ritiene utile ricordare alcuni personaggi che nei secoli hanno avuto rapporto col nostro borgo di S. Caterina per esservi nati o vissuti od avervi  operato.
Non vi è naturalmente, né può esservi, la pretesa di pubblicare biografie od elogi ma semplicemente di trasmettere notizie che servano a ricordare alcune persone che nel corso delle generazioni ci hanno preceduto nel vivere e nell’operare in questo borgo o a favore di questo borgo dove oggi noi abbiamo la ventura o la fortuna di vivere ed operare.
La scelta è stata necessariamente condizionata dalla possibilità di reperire documenti e testimonianze non sempre facilmente accessibili e riscontrabili.

43 – DON CESARE BARDONI

(1927 – 1991)

Successore di Don Silvio Ceribelli come parroco di S. Caterina,  Don Cesare Bardoni fu  nominato prevosto il 2 ottobre del 1982 e poté esercitare il suo ministero per soli nove anni ma tanto da essere capito, stimato, amato e rimpianto per le sue grandi virtù di carità, umanità e la sua rara, totale dedizione all’amore di Dio e degli uomini.

Era nato a Clanezzo il 13 ottobre del 1927, quartogenito di una famiglia di solida fede cristiana e radicati principi morali. Fece i primi studi elementari a Botta di Sedrina e ad Almé e frequentò la prima classe della Scuola Media di via Tasso a Bergamo, fino al 1942 quando entrò nel Seminario Diocesano, anche se la famiglia era in difficoltà economiche. Durante il corso di teologia si ammalò e dovette sospendere gli studi per breve tempo ma poté ristabilirsi e continuare  la frequenza fino alla tanto attesa e sospirata ordinazione sacerdotale del 19 maggio 1951.

Dallo stesso anno iniziò la sua attività di insegnante di francese al seminario di Clusone fino al 1964 e quindi a quello di Bergamo fino al 1970. Suoi ex alunni ne ricordano le grandi qualità di didatta, colto ed esperto, severo e scrupoloso ma umanissimo ed amabile educatore.

Dal 1970 al 1973 fu coadiutore parrocchiale ad Almé, quindi fino al 1982 prevosto plebano ad Almenno S. Salvatore, quale vicario foraneo fino al 1979 e quindi vicario locale di Almenno S. Salvatore, Ponteranica e Villa d’Almé. In questi anni e in questi incarichi lavorò con grande entusiasmo e passione come assistente e catechista, con i gruppi missionari, per l’Azione Cattolica, per l’oratorio, sempre con zelo equilibrato e paziente. Una lettera del 15 agosto 1982 del sindaco di Almenno S. Salvatore al Vescovo Oggioni esprime il dispiacere di perdere don Cesare lodandone “l’umana partecipazione agli eventi lieti e dolorosi di tutte indistintamente le famiglie”.

Nominato parroco di S. Caterina, accettò per obbedienza pur sentendone la responsabilità e temendo nella sua grande modestia e mitezza di carattere di non essere all’altezza di quanto avrebbe voluto e sperato, riconoscendosi “strumento inadeguato all’opera di Dio, ma consapevole  di essere strumento di Dio”, come disse in occasione del suo ingresso solenne in parrocchia il 3 ottobre 1982, accolto con grande gioia dall’intera comunità parrocchiale.

La sua presenza ed attività in parrocchia fu costante e vivace, con un particolare dinamismo interiore, sempre con estrema cordialità e umanità ma riservato e desideroso di non invadere lo spazio altrui.. I suoi campi d’azione furono naturalmente l’attenzione alla comunità, l’infanzia e la Scuola Materna, i giovani e l’oratorio, i catechisti, la pastorale vocazionale e missionaria, l’Azione Cattolica, i centri di preghiera, i gruppi biblici, la celebrazione dei riti e delle feste religiose e l’attenzione al Santuario.

Oltre alle cure parrocchiali don Cesare ebbe anche altri incarichi, dal 1981 al 1985 fu membro del Consiglio Presbiterale Diocesano, dal 1988 al 1990 Vicario locale del Vicariato Urbano Est.
Momenti importanti della sua attività parrocchiale furono la visita pastorale del Vescovo nel gennaio 1985, il 35° anniversario di Messa celebrato insieme agli anniversari  (25° e 50°) di matrimonio di coppie di parrocchiani il 25 maggio 1986, il 250° anniversario della consacrazione della chiesa parrocchiale nel maggio del 1989, nella cui occasione venne pubblicato a cura della parrocchia e per sollecitazione dello stesso don Cesare un volume dedicato alle vicende della parrocchia e del borgo.

La sua vita fu troncata il 4 aprile del 1991, dopo una lunga e dolorosa malattia, sopportata con esemplare cristiana rassegnazione. Partecipò ugualmente dal suo letto di dolore alla vita della parrocchia, fece registrare  un suo saluto  fatto ascoltare in chiesa e riuscì ancora per il Natale del 1990, pochi mesi prima della fine, a celebrare la messa , piegato dalla sofferenza, esempio mirabile di forza morale e fede eccezionale.

Il 4 aprile 1992 venne pubblicato un opuscolo con notizie della sua vita e del suo apostolato, ricordi e testimonianze di vescovi, sacerdoti e laici, parrocchiani e non, dal quale emerge un profilo netto e chiaro della sua personalità, ricca di un carattere sereno ma impegnato, severo e sicuro di sé ma estremamente rispettoso degli altri tanto da apparire timido e incerto, per cui fu talvolta incompreso nella sua volontà di garantire comunque la unità e unicità della comunità parrocchiale contro eventuali pericolose derive di gruppi o sezioni.
Il suo esempio e il suo ricordo arricchiscono la storia della nostra parrocchia.

42 – DON BORTOLO ROTA

(1926 – 1989)

Un’altra figura di sacerdote santo, umanissimo, cordiale, attivissimo, cresciuto nel borgo e poi per diciannove anni curato e coadiutore della parrocchia, è Don Bortolo Rota, non dimenticato amico, confidente, consolatore e consigliere di tanti borghigiani.

Nato il 28 luglio 1926, frequentò le classi elementari alla scuola Alberico da Rosciate dopo le quali proseguì gli studi all’Istituto Tecnico per Ragionieri, ma nel 1941 decise di entrare in Seminario, seguendo una vocazione che da tempo andava meditando.
In seminario seguì la trafila degli studi dalla quinta ginnasio in poi. Allievo diligente, studioso, apprezzato da superiori e compagni, nel gennaio del 1944 si ammalò gravemente con febbre alta, tanto da ricevere l’estrema unzione. Guarì tuttavia e il giorno 11 giugno del 1949 poté ricevere solennemente e con grande gioia l’ordinazione sacerdotale dal vescovo Adriano Bernareggi, con altri ventidue compagni.

La prima messa fu da lui celebrata il giorno dopo nella nostra chiesa parrocchiale. In tale occasione ebbe la gioia di avere la presenza di Mons. Benigno Carrara, da poco vescovo di Imola.
Lo stesso mese di giugno fu destinato a S. Giovanni dei Boschi, oggi detto Tribulina  di Scanzo, dove rimase per cinque anni, fino al 1954, dedicandosi con entusiasmo soprattutto ai giovani e lasciando di sé un gratissimo ricordo.
Dal 1954 al 1963 fu coadiutore parrocchiale a Presezzo e dal 1963 al 1982 fu presente e attivo alla nostra parrocchia di S. Caterina come coadiutore parrocchiale, svolgendo nel contempo una costante e valida attività nel Consiglio di Amministrazione del Seminario.

La sua attività si svolse  per i diciannove anni con incredibile vivacità, inventiva e costante passione. Di carattere aperto e gioviale, dalla conversazione vivace e briosa, arguto e saggio, riusciva a risolvere situazioni anche difficili, facendosi stimare ed amare da tutti.
Oltre alle particolari virtù sacerdotali di pietà, generosità e dedizione ai fratelli ed alla Chiesa dimostrò eccezionali capacità di organizzatore attivando il Centro artistico  del Forno con il gruppo degli Amici, con vivaci attività culturali come incontri, dibattiti e mostre.

Interessato alla storia della sua e nostra parrocchia raccolse documenti, materiali e fotografie, riordinando l’Archivio parrocchiale traendone notizie, spunti, documenti per far rivivere la memoria di uomini e cose, preparando articoli e cronache per il Bollettino Parrocchiale così da permettere che la cronaca si faccia storia.

Fu per la parrocchia, per tutti i cittadini del borgo e per il parroco Don Silvio Ceribelli, un prezioso collaboratore, sia nelle numerose e complesse pratiche burocratiche che nel normale ministero parrocchiale, e nell’attività del Consiglio Parrocchiale ed in particolare nei non pochi momenti difficili.
Anche con Don AngeloBonizzoni, rettore del Santuario, ebbe cordiale collaborazione, ideò e fondò il Gruppo Amici del Santuario, partecipando al Comitato festeggiamenti dell’Apparizione. Fra le molteplici sue attività non va trascurata la sua presenza nel Gruppo Unitalsi, da lui promosso ed incoraggiato, integrata dall’organizzazione dell’annuale Giornata dell’Ammalato.

Fu insomma un uomo ed un sacerdote completo, anche appassionato di montagna, infaticabile escursionista, partecipe attivo e animatore dell’Alpina Ecxcelsior.

Nel 1982 fu nominato Parroco di Barzana dove rimase fino alla morte del 21 gennaio 1989, dopo alcuni mesi di dolorosa malattia. Nei non molti anni della sua presenza a Barzana si fece amare e stimare per il suo particolare carattere gioioso e animatore, per la sua profonda religiosità e la sua veramente eccezionale attività a favore di tutti e di tutta la parrocchia. Ne sono testimonianze i numerosi scritti dettati  da quanti  lo conobbero e amarono, riuniti in un numero unico a lui dedicato col titolo di “Omaggio a Don Bortolo Rota. (1926-1989)” edito a cura della sua parrocchia.

41 – NICOLA GALMOZZI

(1923 – 2004)

Un personaggio veramente eminente nella vita del borgo di S.Caterina è senz’altro il dottor Nicola Galmozzi.

Nato nel 1923, quinto figlio del dottor Ferruccio Galmozzi, indimenticato ed indimenticabile primo sindaco di Bergamo eletto dopo la liberazione per due successive amministrazioni, il giovane Nicola, dopo aver frequentato il nostro liceo classico Sarpi, si iscrisse alla facoltà di medicina, sulle orme del padre, ma dopo l’otto settembre 1943 dovette interrompere gli studi e aderì alla Resistenza nel gruppo di Giustizia e Libertà. Attivo nella lotta per la libertà fu incarcerato per tre mesi a S.Vittore. Dopo la liberazione riprese gli studi e si laureò nel 1948 all’università di Parma.

Esercitò la professione di medico condotto per oltre quarant’anni, prima a Stezzano fino al 1957 e quindi, fino al 1991, in S.Caterina, borgo nel quale era nato e dove abitò per gran parte della vita. Nell’esercizio della professione, considerata una vera missione, dimostrò sempre una grande capacità, preparazione e professionalità abbinate ed illuminate da un profondo sentimento di umanità e carità veramente cristiana, soprattutto verso i più poveri e i più deboli.

Oltre all’attività di medico condotto, dal 1990 al 1997 fu direttore sanitario della Casa di Riposo di Villa d’Adda, contribuendo a migliorarne le strutture ed i servizi.
Si dedicò anche all’attività pubblica quale sindaco di Foresto Sparso dal 1955 al 1965, e quale Consigliere Comunale di Bergamo, dal 1966 al 1970, come Assessore al personale.

Cattolico e democratico convinto, fu sempre coerente nella vita e nelle attività, unendo al garbo ed alla gentilezza nel tratto fermezza e tenacia nel manifestare le sue idee e conseguire i suoi obiettivi.
Partecipò attivamente alla vita comunitaria e parrocchiale del suo e nostro borgo e del suo Santuario  e animatore dell’Associazione Excelsior, del cui gruppo culturale fu presidente.
Della sua cultura e del suo animo sensibile sono frutto non pochi versi, dati anche alla stampa, in italiano ed in dialetto, da lui considerato come vera lingua, documenti di una rara sensibilità poetica.

Dopo una dolorosa malattia sopportata con cristiana rassegnazione, morì il 21 novembre del 2004, lasciando un sincero, profondo rimpianto.

40 – DON GIORGIO LONGO

(1922 – 2001)

Una  figura di sacerdote eminente per dottrina e carità, scrittore, poeta e intenditore d’arte, nato nel borgo e rimasto sentimentalmente sempre affezionato a S. Caterina, anche se operò fuori della parrocchia, è don Giorgio Longo.

Era nato il 4 aprile 1922, figlio di un operaio addetto agli impianti fotografici e litografici dell’Istituto Italiano d’Arti Grafiche. Dalla famiglia di radicate convinzioni religiose e di sani principi civici e morali ricevette un’educazione adeguata che lo portò a scegliere la via del sacerdozio per cui, dopo gli studi presso il liceo Sarpi, entrò in Seminario. Qui si distinse particolarmente per amore alle lettere ed ai libri tento che gli fu affidata la cura della biblioteca del seminario.

Ordinato sacerdote da Mons. Bernareggi il 15 giugno 1946, fu affiancato a don Giuseppe Vavassori come aiuto per la direzione del Patronato di S. Vincenzo e collaboratore per un gruppo di giovani operai ivi ospitati.
Nel 1949 fu destinato alla parrocchia di Leffe come coadiutore fino al 1955 quando, per la salute cagionevole, dovette trascorrere un periodo di cure e riposo sulle rive del lago di Garda, dove compose diverse poesie che furono poi raccolte nel suo “Breviario Gardesano”.

L’anno successivo 1956 fu assegnato alla parrocchia di S. Grata inter Vites in Borgo Canale come coadiutore di don Luigi Zoppetti prima e di don Giacomo Carrara poi e dove rimase fino al 1965 quando fu richiamato al Patronato di S. Vincenzo da don Vavassori, il popolare don Bepo.

In tale periodo don Longo rivelò la sua particolare personalità come scrittore e giornalista. Iscritto all’albo lombardo dei pubblicisti diresse per tutta la vita il periodico del Patronato, collaborando anche al quotidiano cittadino “L’Eco di Bergamo” ed alla “Domenica del Popolo”.   Del 1958 è la sua bella biografia di don Antonio Seghezzi, già assistente dell’Azione Cattolica e morto, vero martire della fede, nel campo di Dachau. Nelle sue opere don Longo dimostra doti di scrittore colto, ricco di una prosa corretta, elegante e viva.

Dal 1969 iniziò l’avventura del Conventino, già struttura conventuale in condizioni precarie, acquisito dal Patronato, restaurato e risorto a nuova vita per l’attività e l’intelligente passione di don Longo.Ne fece la sede di una casa editrice, attivissima e dedicata alla pubblicazione di testi ispirati agli ideali cristiani e relativi a personaggi e vicende bergamasche. Il primo libro edito fu dedicato a “Giovanni XXIII, il Papa del Concilio”. Con scritti di vari eminenti autori, bergamaschi e non, in una edizione elegante e riccamente illustrata, stampata dalle Arti Grafiche, ebbe larga diffusione con ben cinque ristampe e traduzioni in francese e spagnolo.

Negli anni Sessanta e Settanta furono edite importanti opere, dal “Vangelo” e “Antico Testamento” ai “Fioretti di S. Francesco” ai tesori d’arte delle chiese parrocchiali di Mons. Pagnoni, alle sue liriche del “Breviario Gardesano”, ad altri testi più tipicamente bergamaschi come il “Diario semiserio di un parroco di campagna” di don Giovanni Brozzoni, alla “Vecchia Bergamo” di Umberto Ronchi, a “Bergamo di una volta” e “Buonumore bergamasco” a cura di Umberto Zanetti, al documentato testo su “Bartolomeo Colleoni nel suo mausoleo” di Mons. Angelo Meli, fino ad “Usi e tradizioni bergamasche” di Luigi Volpi e “Leggende bergamasche” di Carlo Traini.

L’attività editoriale ebbe un riscontro economico per cui don Giorgio riuscì a fare del Conventino un vero centro culturale con mostre d’arte, conferenze, dibattiti e concerti, realizzando anche un consultorio famigliare operante secondo la morale cattolica.Nel 1972 il centro divenne una fondazione con personalità giuridica.
Estremamente schivo e modesto, don Longo accettò con un certo riserbo, pur ringraziando, la partecipazione al Cenacolo Orobico come poeta e l’aggregazione all’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo nella Classe di Lettere ed Arti nel 1979.

Nel 1977 aveva pubblicato in elegante veste editoriale, in collaborazione con altri amici, una biografia, sentita e commossa, ma soprattutto documentatissima, di don Bepo Vavassori, morto nel 1975, che era stato maestro di vita suo e di migliaia di giovani.

Poco dopo, nel 1980, don Longo fu colpito da un grave ictus che lo invalidò con una emiparesi e non gli permise di continuare la sua normale attività di gestione e direzione con l’abituale intensità ma non gli impedì di scrivere un libro dedicato ai “Misteri del Rosario” nel 1982 ed un’altra opera su “Papa Giovanni, il camminatore del cielo” nel 1983. Pensò anche ad ispirare ed avviare una sorta di pinacoteca d’arte sacra che ancor oggi illustra e adorna alcune sale del Conventino.

Finalmente nel 1996 ebbe la grande gioia di celebrare la prima messa di inaugurazione del santuario mariano appena ultimato a Cochabamba, dove era già stato precedentemente in quella Ciudad del Niño, fondata dal Patronato per ispirazione e ferma volontà di don Vavassori.

All’età di 79 anni cessò di vivere il 4 agosto 2001.
Di lui restano, oltre alla memoria di un prete di salde convinzioni e di un ispirato attivismo, documentato dalle opere da lui realizzate, ed oltre agli scritti in giornali e riviste ed alle opere storiche e letterarie, anche alcune raccolte di poesie quali il già citato “Breviario Gardesano” e “Giorni e Notti”, nelle quali il suo spirito convintamente religioso si esprime in versi di profonda e sensibile umanità.

39 – DON SILVIO CERIBELLI

(1915 – 1982)

Don Silvio Ceribelli, parroco di S. Caterina per 18 anni, dal 1964 al 1982, è stato giudicato “il parroco che ha riscosso più simpatie negli ultimi decenni”, come ha scritto l’attuale parroco, Mons. Andrea Paiocchi. La sua permanenza alla guida della popolosa e vivace parrocchia fu segnata da avvenimenti importanti, accettati non sempre con gradimento da tutti e non poche volte accompagnati da tensioni e crisi che gli procurarono punte di acuta sofferenza.

Era nato ad Almenno S. Salvatore il 30 dicembre del 1915 da una famiglia modesta, di profonda religiosità. Dopo le scuole elementari del suo paese, frequentò, già orfano di padre, il ginnasio nel Collegio dei Salesiani a Treviglio perché, pur manifestando fin da piccolo l’intenzione di farsi sacerdote, la mamma aveva preferito che studiasse non subito in Seminario per evitare una scelta magari prematura. Dopo i cinque anni del ginnasio, con risultati sempre migliori di anno in anno, poté finalmente entrare nel Seminario di Bergamo dove rimase per i tre anni del liceo ed i quattro di teologia, dimostrando viva intelligenza, decisa volontà e convinta determinazione, ottenendo risultati brillanti con votazioni eccellenti, ricche di  molti dieci e qualche nove.Da alcuni suoi compagni di studio veniva ricordato come dotato, oltre che delle virtù proprie di un ottimo studente, anche di molte qualità umane di gioiosa cordialità, naturale bontà d’animo, ottimismo e vivo senso dell’umorismo, che lo facevano particolarmente caro a superiori e condiscepoli.

Venne ordinato il 31 luglio 1938 e già il 22 agosto dello stesso anno fu destinato a Brembate Sotto come coadiutore  e direttore dell’oratorio maschile. In realtà sarebbe dovuto andare a Roma, al Collegio Cerasoli, quale uno dei migliori sacerdoti usciti dal seminario, ma preferì accettare una borsa di studio per l’Università Cattolica di Milano sia per perfezionare la sua cultura classica sia, forse, anche per restare vicino alla famiglia e poterla aiutare più facilmente.

A Brembate sviluppò un’attività intensissima sorretta da un dinamismo entusiasta. Dal 1938 al 1946 furono otto anni di un infaticabile lavoro educativo ed organizzativo, riuscendo a far crescere intorno a sé decine di giovani come lui entusiasti e convinti nell’opera di evangelizzazione e di promozione umana, giovandosi anche di sane e varie attività sportive. Durante gli anni della guerra mantenne contatti con i suoi giovani alle armi, aiutò materialmente e moralmente le loro famiglie, sostenuto nel suo lavoro dalla buona mamma, attiva ed energica, che fu sempre a lui vicina.

Il 28 agosto 1946 fu trasferito a Bergamo come Assistente Diocesano della Gioventù di Azione Cattolica. Dedicò al suo lavoro ogni energia con la più ampia disponibilità di tempo e chiarezza di intenti sorprendentemente precorritrice. Visitava le varie associazioni giovanili della diocesi e partecipava a convegni in diverse parti d’Italia. Organizzava campi scuola, gare di cultura religiosa, passeggiate e viaggi con i giovani e gli amici, infondendo in tutti serenità, entusiasmo, fiducia nella vita e la convinzione di vivere la propria fede con chiarezza di intenti e gioiosa volontà. Non gli mancarono dispiaceri ed incomprensioni che tuttavia non fecero diminuire la sua fede  profonda e l’entusiasmo e la fiducia nei giovani.

L’intenso lavoro gli procurò non lievi preoccupazioni per la salute. Perciò nel 1961, dopo quindici anni faticosissimi ma anche ricchi di grandi risultati, lasciò l’incarico e fu designato parroco di S. Andrea dove, date le ridotte dimensioni della parrocchia, avrebbe potuto riposarsi e ricuperare salute. Tuttavia non si adattò ad una vita tranquilla. Riuscì a rivitalizzare  tutti i vari settori dell’organizzazione parrocchiale attraverso la parola e l’azione. Rese la sua piccola parrocchia un centro di fede partecipata e vissuta, tanto che quando, dopo due anni, fu mandato dal Vescovo a reggere la comunità di S. Caterina, ben più popolosa, lasciò un ricordo di sé molto vivo ed un rimpianto sincero.

Nella nuova parrocchia fece il suo ingresso il 31 agosto 1964 ma volle che fosse in forma privata alla presenza dei soli preti e di pochissimi laici come testimoni.Era il tempo del Concilio, anni di grandi speranze e grandi attese. Don Silvio se ne entusiasmò e si gettò nell’azione con tutta la sua passione e profonda convinzione ma, nei fermenti di generosi slanci ma anche di illusioni e contestazioni, non gli mancarono episodi dolorosi di incomprensioni ed amare delusioni.  Continuò tuttavia a lavorare con ferma fiducia nei vari settori della vita parrocchiale, dall’attenzione al Santuario, ai gruppi di preghiera, alla cura per l’oratorio e la scuola materna, sostegno ai missionari ed avvio, talvolta turbolento, del Consiglio Parrocchiale. Seguiva con viva sollecitudine le diverse cerimonie perché  fossero sentite, curate, esemplari, senza trascurare i molti impegni amministrativi connesssi alla parrocchia.

Nel 1976 fu nominato Monsignore. “Ne fu contento per la sua gente”, come scrisse il Vescovo Mons. Gaddi, che aggiunse “ma non ne fece uso. Lo chiamassero Don Silvio, o Don Ceribelli o il Prevosto: questo gli andava. Il titolo di Monsignore gli sembrava una stonatura e non ci si abituò mai”.
Nei rapporti con la gente, parrocchiani e non, giovani ed anziani, manteneva uno stile di grande signorilità, cortesia e gioiosa cordialità. Si servì del Bollettino Parrocchiale come di una cattedra di pastorale cristiana, come aveva già fatto nella parrocchia di S. Andrea.

I suoi “Itinerari Parrocchiali” hanno un tono discorsivo, famigliare.In una lingua ricca, corretta e personale, in modo chiaro, semplice, preciso racconta episodi di vita quotidiana, incontri e riflessioni su problemi vivi e sentiti, talvolta drammatici, sempre con un tono di sorridente fiducia, di umana partecipazione ed esplicito ottimismo cristiano e lampi di umorismo manzoniano, concludendo sempre con una morale che fa sorridere e sperare. Una pubblicazione a cura di alcuni sacerdoti della parrocchia, edita nell’anno 2000, raccoglie i quasi duecento “Itinerari” pubblicati sul Bollettino dal 1965 al 1982, una trentina dei quali era stata pure già inserita in una biografia di Don Silvio nel 1983, edita a cura della Parrocchia.

Pochi mesi prima di morire aveva avvertito notevoli disturbi di cuore. Doveva riposarsi ma, dopo una sola settimana di permanenza al paese natio, riprese la solita generosa attività. Purtroppo la sua salute era irrimediabilmente compromessa e la sera del 23 marzo 1982, dopo una normale giornata di lavoro, si sentì male. Accorse d’urgenza il medico ma si aggravò tanto che i confratelli sacerdoti gli amministrarono l’Unzione degli infermi e poco dopo la mezzanotte, nei primi minuti del giorno 24 marzo, “il Signore lo chiamò a Sé”.

Nel suo Testamento aveva scritto: “Signore, eccomi. Ti ho aspettato per tutta la vita, finalmente Ti vedrò come sei, mia grazia, mio tutto”.
La sua figura rimase impressa nella mente e nel cuore delle migliaia di persone, parrocchiani e non, che ebbero la fortuna di conoscerlo, di apprezzarne la vita, la parola, l’insegnamento e di amarlo.

38 – EMILIO NEMBRINI

(1912 – 2002)

Nella nostra  parrocchia visse a lungo il pittore Emilio Nembrini, nato a Pradalunga il 16 maggio 1912 da una famiglia di artisti, pittori e decoratori.
Emilio visse un’infanzia serena e felice tra pennelli e colori, tra scuola e gioco in un’atmosfera di calore famigliare. Disegnava di istinto. Seguì però studi precisi alla Scuola di Arti e Mestieri Andrea Fantoni di Bergamo dove si diplomò a quindici anni, continuando poi all’Accademia Carrara dove ebbe come maestri Francesco Domenighini, Luigi Brignoli e Contardo Barbieri, così come  alla Scuola d’Arte aveva avuto altre eccellenti guide in Mario Frizzoni, Dante Fornoni e Giovanni Avogadri. Da tutti ebbe riconosciute eccellenti qualità e gli vennero attribuiti frequenti premi.
Già da allievo partecipava a lavori come tirocinio.

A vent’anni, in possesso ormai di una notevole maturità artistica, lavorò attivamente ad affrescare chiese in città e provincia, in collaborazione con altri pittori quali il Servalli, il Marigliani ed il Manini. Lo aiutavano anche il padre e fratelli e sorelle, alcune delle quali gli fecero anche da modelle per figure bibliche.
A ventidue anni cominciò un’attività indipendente sia come affreschista in diverse chiese che come pittore al cavalletto con ritratti e scene varie.

Innumerevoli sono le chiese della provincia, oltre che della città, che hanno visto la sua opera, da Bergamo in S. Giorgio, ad Azzano, Gorno, Albino, Valle Camonica, Pedrengo, Petosino, Ascensione, Cornale, Scanzo e Pradalunga, il paese natio sempre da lui amato e presente nella sua vita. Come pittore da cavalletto restano conservati in collezioni private molti notevolissimi ritratti ed autoritratti, nature morte, paesaggi, scene di vita. Ebbe uno studio in via Borfuro.

Nel 1940 come militare richiamato fu mandato in Albania, dove venne riconosciuta la sua abilità pittorica ed incaricato di affrescare l’ospedale militare di Tirana.
Nel 1948, chiamato dagli amici artisti Gritti e Pinetti, andò in Spagna dove lavorò a Barcellona, Yerez e soprattutto ad Almendralejo in Estremadura, dove si trattenne fino al 1951 affrescando volte, absidi, muri perimetrali per quaranta scene e altri dipinti a tempera nella chiesa di Nostra Signora della Purificazione. Si tratta della decorazione murale più estesa di Spagna, tanto che fu definita la Piccola Sistina di Estremadura.

Lavorò molto anche per privati, ammirato e richiesto. Lasciò di sé e della sua opera un grandissimo ricordo tanto che nel 1996 fu invitato e festeggiato con cerimonie religiose e civili, attribuzione di medaglie, concerti e cene ed intitolazione di una via cittadina come “Calle Emilio Nembrini pintor”. Insieme a lui fu invitato e festeggiato anche l’amico Giovanni Gritti che con lui aveva lavorato ed al quale fu pure intitolata una “Calle Giovanni Gritti pintor”. Nuovamente nel maggio del 2005 fu inaugurato, alla presenza delle autorità civili, del Vescovo e dei famigliari dei due pittori, un Museo Devozionale di Nostra Signora nello stesso  santuario, dove sono conservate 52 opere del Nembrini e 20 del Gritti.

In Bergamo partecipò attivamente alla vita del Circolo Artistico. Fuori Bergamo lavorò a Linate, Saronno, Trento, Albisola, Savona, Foppolo, Ponte S. Pietro, Azzano S. Paolo, ma anche a Beirut, in Libano.
Fu lavoratore instancabile, oltre che come affreschista anche in quadri ad olio, ritratti di famiglia, di amici e committenti, paesaggi nelle varie stagioni, nature morte, scene di vita. Della sua pittura scrissero molti critici apprezzandone la facilità e la sicurezza del disegno, la padronanza del colore, i ritratti rivelanti i segreti dell’anima. Nell’anno 2003 da Grafica e Arte fu edita una bella pubblicazione a lui dedicata con articoli e saggi critici sulla sua arte e cinquanta riproduzioni in bianco e nero e novantasette a colori di sue opere.

Nel 1992 gli venne dedicata una Sala Nembrini al Conventino inaugurata da Mons. Loris Capovilla.
Per tutta la sua lunga vita lavorò con passione e gioia. Fu detto artista d’altri tempi, con significato positivo ed elogiativo.  Negli Uffici della Segreteria di Stato in Vaticano è depositato il suo dipinto “La Madonna della Pesca” da lui offerto in omaggio al Papa.

Nella casa parrocchiale di S. Caterina è conservato, in un bel quadro ad olio su tela, di cm. 70 x 50, un ritratto del Papa Giovanni XXIII, da lui donato al Parroco della sua parrocchia.

Morì il 1 giugno 2002, a novant’anni, e fu sepolto nella tomba di famiglia nella sua Pradalunga che volle onorarlo indicendo il lutto cittadino. Di lui restano innumerevoli dipinti, sacri e profani, presso collezioni private, musei e chiese e nella sua abitazione di via Baracca, dove l’affezionata moglie Franca Calegari conserva con fedeltà d’amore  molti dipinti preziosi e sempre vivi ed attuali. Una serie numerosissima di scritti biografici e critici illustrano e tramandano il ricordo delle grandi virtù umane ed artistiche del pittore Emilio Nembrini.

37 – MICHELE VITALI

(1912 – 1981)

Il maestro Michele Vitali, organista per quarantacinque anni, dal 1931 al 1976, della parrocchia di S. Caterina, nato a Luzzana nel 1912, privo della vista dalla nascita, dimostrò presto delle spiccate qualità musicali, per cui poté studiare pianoforte, organo e violino presso l’Istituto dei Ciechi di Torino. Continuò poi gli studi a Milano, allievo di  musicisti di valore come Emilio Schieppati per il pianoforte e Franco Fiorentini per l’organo.

Qui ebbe il diploma per il pianoforte e successivamente, nel 1929, presso l’Accademia Filarmonica di Bologna, si diplomò in organo con un ottimo punteggio.
La sua attività di organista iniziò nel 1929 a Gandino, dove aveva accompagnato il fratello sacerdote Don Giovanni, di lui più anziano.Il maestro Michele fu organista titolare di S. Caterina dal 1931 fino al 1976, quando si accomiatò con un concerto eccezionale al Santuario dell’Addolorata. Furono eseguite nell’occasione musiche famose e care al pubblico, nella prima parte, da Zipoli a Galuppi, da Albinoni a Bach e Saint Saèns e Frank, e da musiche di compositori bergamaschi contemporanei, da Mandelli e Arnoldi a Pedemonti ed Esposito, da Benigni a Manzoni, nella seconda parte.

Come organista fu un armonizzatore raffinato, conoscitore eccezionale della tecnica e dell’arte organistica. Improvvisatore facile e convincente, fu anche compositore personale ed originale di brani liturgici. Tenne concerti anche fuori della parrocchia e della città, dove veniva chiamato particolarmente in occasione di feste liturgiche, così nel Duomo di Bergamo, ad Inverigo, dove riscosse un successo eccezionale, ed a Milano per inaugurare la ricostruzione dell’organo dell’Istituto dei Ciechi. Dalla Curia Vescovile bergamasca venne premiato con diploma e medaglia per la sua lunga attività professionale.

Si dedicò anche all’insegnamento privato di organo, pianoforte e teoria musicale, lasciando un vivissimo ricordo nei numerosi allievi che aveva avviato alla musica tra il 1930 e il 1970. Fece pure l’accordatore di pianoforti, molto apprezzato per la padronanza assoluta della tecnica e l’eccezionale sensibilità all’intonazione.

Formò una famiglia felice sposando la signora Clementina Ciotti Pietrasanta, la sua cara Cleme, della cui precoce perdita molto soffrì, se pur consolato dalle sorelle Amabile e Piera.
Della sua personalità gli amici ricordano l’aspetto sereno, il discorso pronto, intelligente, ansioso sempre di sapere, di conoscere, rifiutando il pettegolezzo insulso. Morto nel 1981, la parrocchia lo ricordò con un opuscolo nel 1984 con testimonianze di amici e discepoli.

36 – MARIANA FRIGENI

(1909 – 1997)

Una  figura femminile ricca di ingegno, di grazia e di poesia, vissuta nel borgo, anche se viaggiò  a lungo in Italia, in Europa, in America ed in India, che ottenne riconoscimenti ed onori, fu certamente Mariana Frigeni , nata a Bergamo il 26 marzo 1909 e qui morta il 14 dicembre  1997, nella sua casa di via Francesco Baracca.

Studiò presso l’Istituto delle Suore di Maria Bambina, arricchendo la sua cultura con la sicura conoscenza della lingua francese, ebbe un interesse vivissimo per la musica e le belle arti, in primis la pittura, che esercitò anche con buona padronanza dei mezzi espressivi, e soprattutto per la narrativa, cominciando già giovanissima a pubblicare racconti e novelle in riviste e giornali. Ebbe così modo di conoscere e farsi apprezzare da eminenti personalità del giornalismo e della critica.

Il suo interesse per la cultura e le arti la spinse a viaggiare per conoscere, osservare e capire. Visse così anche a lungo a New York ed a Lugano.Ebbe lusinghieri riconoscimenti tanto da ottenere diverse lauree ‘honoris causa’ dalle Università di Los Angeles, di Bucarest, di Galati in Rumania, oltre alla partecipazione ad associazioni culturali nazionali ed internazionali. Fu attiva come giornalista e come componente del Consiglio Direttivo del Circolo Artistico di Bergamo, socia di vari club, quali il Soroptimist, il Pen Club, il Cenacolo Orobico e l’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo.

Innumerevoli poi le onorificenze e lei concesse, italiane e straniere, come il Cavalierato del Sovrano Ordine di Malta, il Cavalierato di Gran Croce al merito della Repubblica Italiana, il Premio per la Cultura da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri italiano, un premio speciale della sezione nuovayorkese della Società Nazionale Dante Alighieri, l’Ambrogino d’Oro del Comune di Milano, il premio speciale ‘Campione d’Italia’ di giornalismo e la Palma Accademica concessa dall’Università di Seul.

La sua principale attività si esplicò nella narrativa. Compose infatti e pubblicò diverse raccolte di novelle e romanzi, ispirati a casi umani, immersi nell’attualità della vita, anche drammatica, con grande abilità nella descrizione sia della natura che dei più vari stati d’animo. Dalle sua pagine traspare una profonda ispirazione cristiana e speranza in un mondo migliore.
Frutto della sua sensibilità lirica e capacità espressiva sono alcune raccolte di poesie nelle quali, accanto a descrizioni vivaci e personali di paesaggi, all’evocazione di momenti storici, alterna riflessioni, esperienze, entusiasmi, passioni e ricordi con intensa partecipazione e vivi abbandoni lirici.

La sua maggiore fama le derivò tuttavia dalla trilogia dei romanzi storici dedicati a Ludovico il Moro, Bartolomeo Colleoni e Leonardo da Vinci, nei quali alla documentazione storica, frutto di anni di ricerche, si aggiunge un afflato romanzesco che ravviva con invenzioni di fantasia il dato oggettivo con una singolare vivacità espositiva. I tre lavori, frutto della sua maturità artistica, ottennero un successo clamoroso sia in Italia che all’estero, in quanto furono tradotti  in molte lingue, dal tedesco, inglese, rumeno e russo al giapponese e cinese.

La sua personalità che si esprimeva con grande dignità, dolce e serena nel tratto e nell’eloquio, ravvivata da tratti di arguzia e garbata ironia, la fece stimare ed amare da una vasta cerchia di amici.
Del nostro borgo amava luoghi e persone, ed in modo particolare il Santuario, dove si recava solitaria in silenziosa meditazione e preghiera.

35 – DON ANGELO BONIZZONI

(1902 – 1985)

Una figura cara e famigliare che visse nel borgo per più di in quarantennio fu quella di Don Angelo Bonizzoni, coadiutore parrocchiale e rettore del Santuario.

Era nato a Pianengo, in provincia di Cremona, il 21 dicembre 1902, cresciuto poi a Romano di Lombardia, dove si era trasferita la famiglia. Studiò nel nostro Seminario Diocesano e fu ordinato sacerdote dal Vescovo Luigi Maria Marelli il giorno 11 giugno 1927. Seguì poi la trafila dei vari impegni pastorali, da coadiutore parrocchiale a Brembate Sotto dal 1927 al 1929, quindi a Morengo, dal 1929 al 1932, Telgate,dal 1932 al 1934, e Ghisalba, dal 1934 al 1944, fino alla nostra parrocchia di S. Caterina dove, assegnato dal Vescovo Adriano Bernareggi, giunse il 10 luglio 1944 come coadiutore parrocchiale e la carica di rettore del Santuario dell’Addolorata.

Momenti importanti del sua vita furono le varie ricorrenze anniversarie, occasioni di festeggiamenti e manifestazioni di simpatia da parte di popolo e di autorità. Grandi feste si fecero per i 25 anni  (nel 1969) ed i 40 anni (nel 1984) di Rettorato del Santuario. Particolarmente sentite ed affettuose furono le manifestazioni per il giubileo sacerdotale, i cinquant’anni di sacerdozio, nel 1977, per il quale fu compilata in suo onore una bella pergamena con gli elogi di occasione, firmata da sacerdoti e laici, amici ed estimatori. Giunse anche la benedizione del papa Paolo VI, tramite il cardinale Villot e gli fu inviata una cordiale lettera dal Vescovo Clemente Gaddi.

E’ infine da ricordare un riconoscimento del tutto particolare per un sacerdote, il conferimento delle insegne di Cavaliere della Repubblica Italiana. Gli furono consegnate nella chiesa parrocchiale il giorno 8 dicembre 1982, alla messa delle ore dieci, celebrata da Don Angelo col parroco Don Cesare Bardoni che all’omelia invitò tutti a ringraziare insieme il Signore per aver dato alla parrocchia Don Angelo con il suo servizio zelante e prezioso.
Non sempre però fu ammirato ed amato. Conobbe anche dolori e amarezze, soprattutto nei primi tempi della sua presenza, i duri ultimi anni di guerra e quelli pure difficili del primo dopo-guerra. Fu anche minacciato e rischiò la vita per soccorrere, aiutare ed assistere, senza mai porre domande e fare distinzioni.

Sempre cordiale, affettuoso, impeccabile nel tratto, nell’abito, nel portamento signorile, sicuro della propria vocazione e missione, ascoltava tutti, anche i lontani, con molta comprensione ma senza alcun cedimento compromissorio.
Pochi giorni prima del compimento degli 83 anni, il giorno 6 dicembre 1885, cessava di vivere. I suoi funerali furono un’ulteriore dimostrazione dell’amore e della stima che aveva saputo suscitare nella gente del borgo, in tutti gli strati sociali. Si susseguirono dichiarazioni, lettere, omelie dettate da grande amore, affetto e dolore, temperato dalla fede e dalla preghiera

Nel primo anniversario della morte fu collocata dai parrocchiani nel Santuario una lapide che ne ricorda i quarantadue anni di ininterrotto, generoso servizio.
Fu poi pubblicato un elegante opuscolo illustrato che riporta note biografiche e testimonianze di amici, sacerdoti e laici, che di Don Angelo ricordano carattere e meriti come “vero prete di Dio, innamorato della Madonna, fedele alla parrocchia” come lo definì Don Cesare Bardoni, mentre Don Silvio Ceribelli scrisse: “Se il Santuario è un dono provvidenziale per la parrocchia, un rettore come Don Angelo era un regalo per come ne custodiva la memoria con fedeltà e amore”.

34 – MONS. GUIDO SALA

(1900 – 1982)

Mons. Guido Sala era nato a Crespi d’Adda il 3 ottobre 1900, studiò a Celana ed al Seminario di Bergamo e fu ordinato nel 1923 dal Vescovo Marelli. Continuò gli studi universitari a Roma dove fu allievo anche di Enrico Fermi e si laureò in fisica e matematica. Tornato a Bergamo insegnò in Seminario dal 1936 al 1948.

Dal 1937 al 1950 fu Assistente dei Laureati Cattolici e dal 1938 al 1950 anche della FUCI. Come tale ebbe occasione di conoscere e stringere amicizia con Mons. Montini, allora Assistente Nazionale.
Don Guido insegnò anche al Collegio S. Alessandro dal 1942 al 1948. In quell’anno, il 15 giugno, fu nominato parroco di S. Caterina dal Vescovo Bernareggi. Fece l’ingresso la prima domenica di agosto. Rimase prevosto fino al 1964.

Fu un parroco di grande attività, tanto da essere chiamato il prevosto della ricostruzione dopo i drammatici anni della guerra ed i tempi del difficile dopo-guerra. La sua opera fu diretta principalmente alla pastorale parrocchiale ma anche all’organizzazione, ristrutturazione e costruzione di numerose opere. Fu restaurata e consolidata la chiesa parrocchiale con lavori pluriennali conclusisi solo nel 1963. Dal 1949 iniziò il totale rifacimento dei locali dell’archivio parrocchiale, nel 1953 fu inaugurato il campanile riedificato a cura dell’ing. Angelini e dotato di un nuovo concerto di campane.
Infine l’opera forse maggiore fu la costruzione del nuovo oratorio. Posta la prima pietra nel 1956, benedetta dal Vescovo Piazzi, fu portato a termine  dall’architetto Camillo Remuzzi e inaugurato dallo stesso Vescovo Piazzi il 24 marzo 1957. Nel successivo 1958 fu aperta al culto la cappella col bell’affresco di Nino Nespoli.

La sua intraprendenza si esplicò anche in altre numerose opere attinenti alla parrocchia, come la nuova sede delle ACLI e la modernizzazione dell’asilo nel 1959. Non gli venne mai a mancare il sostegno morale e materiale dei suoi parrocchiani.

Fu nominato Monsignore nel 1958 e nel 1961 fu ricevuto a Roma dal Papa Giovanni XXIII da cui ebbe in dono per la parrocchia il prezioso ostensorio e nel 1973 il Papa Paolo VI gli donò personalmente un prezioso calice che lasciò poi al santuario.
Come si è detto, nel marzo del 1964 si ritirò dalla parrocchia  dedicandosi allo studio e nuovamente all’insegnamento, lasciando di sé la memoria di un pastore attivo, intraprendente e generoso.

Morì il giorno di Natale del 1982.

33 – NINO NESPOLI

(1898 – 1969)

Giovan Battista Nespoli, detto Nino, nacque a Palazzago il 25 agosto 1898, figlio di un burattinaio ambulante. La sua infanzia e giovinezza furono difficili, prive di agi, al seguito del girovagare del padre nei  vari paesi della periferia milanese, tra i quali il più frequentato fu Sesto S. Giovanni. Aiutava il padre e la numerosa famiglia, era infatti il primo di nove fratelli, adattandosi a vari modesti lavori, quali l’imbianchino, il verniciatore, lo stagnino, l’aiuto burattinaio e pittore di scene del teatrino paterno.
Da Sesto si recava a piedi a Milano per seguire i corsi serali all’Accademia di Brera.

Nel 1916 la famiglia si trasferì a Bergamo, così Nino poté frequentare l’Accademia Carrara. Arruolato   nel 1917, combatté lealmente sull’Altipiano di Asiago, meritandosi due croci al merito. Dopo  il congedo riprese gli studi all’Accademia Carrara, dove fu allievo ed assistente di Ponziano Loverini, del quale divenne amico stimato ed amato.

Dal 1923 cominciò ad esporre i suoi lavori in numerose mostre collettive di allievi della Carrara. Dapprima pittore di cavalletto continuò a partecipare a varie mostre organizzate  dal Circolo Artistico di Bergamo e da varie altre gallerie e circoli culturali di Bergamo e Milano.

I temi delle sue pitture furono essenzialmente di arte sacra e tali rimasero dal 1935 in poi, quando si dedicò quasi esclusivamente all’affresco. Lavorò così per molte chiese ed oratori a Bergamo ed in vari paesi della provincia, ma molti suoi affreschi furono realizzati anche a Tripoli, dove fu chiamato nel 1937 dal Vi cario Apostolico, il bergamasco Mons. Vittorino Facchinetti, che gli fece affrescare la cappella privata, e ad Imola e Bologna, dal 1948, invitato dal Vescovo di Imola Mons. Benigno Carrara, già parroco di S. Caterina, del quale aveva dipinto anche un felicissimo ritratto ancora conservato nella nostra chiesa parrocchiale.

Sono molte le sue opere ad affresco nella chiesa e nel Santuario del nostro borgo, dove visse tutta la vita, lavorando serenamente e dedicandosi, oltre che alla pittura, per la quale operava con intensità e ardore, alla passione per il teatro popolare, sia come scenografo che come attore e direttore di compagnie filodrammatiche, tra le quali l’Excelsior di S. Caterina. Qui trovava modo di comunicare a tanti amici borghigiani la sua personalità semplice, sincera, gioiosa.

Delle sue molte opere fanno parte, oltre a quelle di carattere sacro, che sono le più numerose, anche altre che si ispirano ed illustrano il paesaggio, la natura morta, angoli  e panoramiche della sua città, destando sensazioni di un mondo intimo, dolce e sereno.

Nella nostra parrocchia, oltre al citato ritratto di Mons. Carrara, sono di particolare valore i tre affreschi più noti e sicuramente riusciti, l’ “Annunciazione a Maria” e la “Crocifissione di Gesù” del 1938-39, e nella chiesa dell’Oratorio di via Celestini, del 1958, i “Santi Protettori della Gioventù”, nel quale, accanto ad undici santi aureolati, appare anche vicino a giovani in preghiera, Giovanni XXIII, dipinto dal Nespoli ancora qualche giorno prima che fosse eletto papa, suscitando stupore ed ammirazione dello stesso parroco.
Questa fu una delle sue ultime opere perché negli anni successivi fu impossibilitato a lavorare  per la precaria salute.

Morì il 21 dicembre del 1969 nella sua casa di Bergamo.
Della sua pittura è stato detto che rivela una viva ammirazione per i quattrocentisti toscani, che sentiva vicini alla sua sensibilità di artista  meditativo, sensibile, silenzioso e poetico, che traspare nettamente in molte sue opere, nelle quali il paesaggio chiaro, limpido, poetico, dai colori luminosi e dalle forme precise, trasmette, anche nel dolore, un senso di pace e serenità.

La sua opera pittorica fu ed è ancora ricordata e ammirata nel tempo e diverse mostre postume furono organizzate nel 1973, alla Galleria del Forno in S. Caterina, nel 1997 a S. Giovanni Bianco e nel 1998 a Bergamo, presso la sede storica in città alta dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti, ed infine a Grassobbio nel 2004.

32 – CARLO CUNI

(1894 – 1961)

Un tipico personaggio del borgo fu Carlo Cuni, nato il 16 febbraio 1894 nel quartiere e qui vissuto tra via Pitentino, piazzale Oberdan, ossia Ponte di S. Caterina, ed infine in via Crescenzi.

Di modesta famiglia, studiò da disegnatore meccanico presso l’Esperia, lavorò quindi, appunto come disegnatore, a Lecco e quindi a Dalmine, dopo aver prestato servizio militare durante la guerra 1915-18. Continuò a Dalmine nella stessa attività fino al 1957, e morì il 23 giugno 1961.
Vita dunque di un comune lavoratore, ma in realtà il suo valore di personaggio fu il suo essere insieme poeta, attore e musicista, oltre che organizzatore di compagnie teatrali in ambito locale ed anche a livello cittadino.

Amico e sodale di personaggi ricchi, come lui, di originalità e sensibilità poetiche e artistiche, come Avogadri, Mazza e Pedrali, ne condivise attività, entusiasmo e simpatiche vicende. Di questi più giovane ne divenne compagno in quel mondo  di poesia e teatro locale e dialettale facendo, come loro, parte del Ducato di Piazza Pontida come ‘grande vassallo’, collaborando all’organizzazione ed alla gestione di varie compagnie teatrali quale quella dei Piccoli Spettacoli di Alfonso Orlando, quindi la Compagnia Dialettale Bergamasca, dal 1930 al 1935, sotto l’egida del Ducato, della quale fu direttore artistico, poi  il Gruppo Popolaresco Bergamasco nel 1934, anche qui direttore artistico.

Nel dopo-guerra riprese l’attività nel Gruppo Folkloristico di Piazza Pontida, nel 1950, e nella Compagnia Dialettale Giuseppe Mazza nel 1952. Partecipò allo spettacolo ‘Il microfono è vostro’ nel 1952, con Nunzio Filogamo, quando ebbe assegnato il ‘microfono d’argento’, concludendo così in maniera brillante le sue varie attività di organizzatore e gestore di manifestazioni teatrali ma anche di attore, poeta e musicista.

Sono infatti sue numerose poesie in lingua e dialetto, alcune operette teatrali, per le quali fu anche vivace e originale attore e pure musicista, e varie canzoni popolari che cantava accompagnandosi con la chitarra.Tipica era la sua figura come cantante alla chitarra e come attore, favorito da un comportamento signorile, alto e snello, ricco di una naturale simpatia che traspariva dal volto aperto e ridente.

Le sua opere poetiche, teatrali e musicali erano suggerite da fatterelli cittadini, episodi di vita quotidiana e si presentavano come divagazioni narrative od in forma di canzonette.

Di lui resta pubblicato un volumetto che raccoglie dieci canzoni, in lingua e dialetto, da lui musicate tra il 1930 ed il 1940 circa, i cui versi, oltre che dello stesso Cuni, sono di Renzo Avogadri. Piero Astolfi e Giuseppe Mazza.

Nel 1961, a cura del figlio Enzo, venne poi pubblicata col titolo di ‘Lucciole’ una raccolta di trentasette poesie in lingua italiana, in metri vari, e dieci liriche in dialetto, sotto il titolo di ‘Rapsodie Bergamasche’. Sono espressioni limpide e sincere di un’anima sensibile, buona e generosa. Varie pubblicazioni, edite in epoche diverse, riportano notizie della sua attività di direttore artistico di numerose compagnie teatrali per le quali operò con intelligenza e passione.

Di lui e dei suoi amici, Vittorio Mora ricorda: “l’amichevole consorzio e la collaborazione di gruppi che, nell’ambito del Ducato e fuori, produsse una straordinaria fioritura della letteratura e del folklore bergamasco nel primo Novecento.

31 – RENZO AVOGADRI

RASGHI’

(1890 – 1945)

Nato, vissuto e morto nel borgo, fu totalmente borghigiano nella vita, nelle opere poetiche e di teatro, Renzo Avogadri, detto ‘Rasghì’.  Nato infatti  il 9 gennaio 1890, visse sempre al n. 53 di via S. Caterina, nei pressi della trattoria dell’Angelo che considerava il suo ‘studio letterario’.

Si diplomò in violino presso l’Istituto Musicale ‘Gaetano Donizetti’, dove studiò anche la viola, ma del violinista non fece una professione, pur suonando in varie ragguardevoli orchestre liriche e sinfoniche. Da questa situazione trasse l’idea del soprannome ‘rasghì’, di colui cioè che con l’archetto sembrava umoristicamente ‘rasgare’, cioè segare lo strumento. Nel termine, apparentemente dispregiativo, non vi era però un intento negativo ma una sorridente autoironia molto simile all’atteggiamento di ‘understanding’ all’inglese.

Per ottenere tuttavia una sicurezza economica, si fece agente di commercio di generi alimentari e liquori per drogherie e salumerie.Tale professione gli era occasione di avvicinare e colloquiare con molte persone di ogni ceto e di ogni provenienza, e ciò gli offriva spunti ed ispirazioni per tante sue opere e personaggi teatrali.

Trascorse una vita tranquilla nel borgo tra il lavoro di agente di commercio che passava da un cliente all’altro e gli permetteva libero uso  del suo tempo. Poi erano ore di riflessione e composizione di poesie e opere teatrali nel suo ‘studio letterario’ della trattoria dell’Angelo, ed ore di svago intellettuale con gli amici del borgo nelle varie trattorie del Gamberone, della Scopa, del caffè Urio, oltre che della quasi seconda casa dell’Angelo e con l’allegra brigata del Ducato di Piazza Pontida, di cui fu uno dei fondatori, con Rodolfo Paris, nel 1924 e del quale era stato nominato Grande Siniscalco, cioè quasi un primo ministro. Qui incontrava altri amici  poeti, pittori, scultori e musicisti oltre a personalità eminenti quali Bortolo Belotti e Giacinto Gambirasio ed i fedelissimi borghigiani e poeti, e grandi amici, Giuseppe Mazza, Angelo Pedrali e Gian  Battista Algisi.

Dalla sua frequentazione di persone di varia estrazione e dai lieti ‘simposi ducali’ nascevano gli spunti per molte sue poesie d’occasione, ‘rime conviviali’, allegre e sorridenti, mai volgari, e spesso racchiudenti nella conclusione riflessioni serene ed invitanti all’amicizia ed alla solidarietà.Molte sue poesie e prose furono pubblicate sul ‘Giopì’, periodico del Ducato, ed è da ricordare la scherzosa corrispondenza tra gli eterni fidanzati Rösì (l’Avogadri) e Felipo (il Mazza), che usciva a numeri alterni del periodico in una lingua infarcita di esilaranti espressioni dialettali comicamente italianizzate.

Delle sue poesie, quasi tutte in vernacolo, si distinguono, oltre a quelle conviviali già citate, alcune ricche di sentimento e commozione, quali ‘La fontana de la Féra’, che ricorda, come in sogno, con un velo di nostalgia, la fontana di piazza Dante che era stata per più di due secoli al centro della Fiera, luogo di incontri commerciali, vivo e popolare. Poi ‘Festa in montagna’, ricca di colore descrittivo di una processione che si svolge tra monti, boschi e prati.

Alla presentazione con sorridente umorismo dei vari personaggi, segue la serena, nostalgica e idilliaca visione del sole al tramonto e l’ultimo rintocco della campana  … che lentamente muore. Riflessione autobiografica è ‘La Pigna’, ispirata all’albero del suo giardino che l’aveva visto nascere e vorrebbe accoglierlo morto tra le sua radici. Pure pervase di serena malinconia sono le sestine di ‘Indò l’è mort ol Rügér’, riflessioni ai piedi della lapide sulla casa in cui è morto il poeta Pietro Ruggeri. Decisamente triste ed ispirato ad una fiera denuncia sociale è ‘Ol sanmartì d’ü poarèt’, descrizione del trasloco su  una carrettella  sconquassata di un povero sfrattato con moglie, figlio e un gatto. Procedono con infinita tristezza verso una fine disperata.

In tutta la sua produzione poetica, in lingua e in dialetto, c’è da osservare  come i versi siano rispettosissimi della grammatica e della metrica e, per la lingua dialettale, delle numerose regole fonetiche.

Oltre alla produzione poetica, molto ricco è il suo repertorio per il teatro, dialettale ed in lingua. Nella sua bibliografia teatrale sono non meno di settanta i titoli di commedie, farse, monologhi, gialli polizieschi, vaudeville e bozzetti. Diverse commedie sono state musicate da amici musicisti, tra i quali i maestri Eugenio Tironi e Gino Zanoni. Le varie opere per il teatro, dedicate a compagnie filodrammatiche dilettanti ed oratoriali, sono in gran parte umoristiche, non mancano però di semplici ma sinceri e convincenti momenti di riflessione e di umanità e buon senso. Al teatro dedicò anche notevole attività come direttore di compagnie filodrammatiche.

Come si è detto, morì nella sua casa di S. Caterina il 4 agosto 1945, appena cinquantacinquenne.

Il ricordo della sua poesia e del suo teatro  è rimasto vivo nel borgo e nella città. Diverse edizioni di raccolte di poesie ed opere teatrali  si succedettero dal 1944 con il volumetto  ‘Poesie del Rasghì’, poi ripubblicato nel 1969, fino a ‘I Piasser dè l’amìs’, pubblicato nel 1969 a cura di Vittorio Mora. La bibliografia dedicata alla vita ed alle opere dell’Avogadri si succedettero , in vita ed in morte, dal 1933 fino al 1978, con articoli , presentazioni, discorsi, commemorazioni e riedizioni di opere, a cura di diversi autori, studiosi ed estimatori, da Alfonso Vajana, Angelo Astolfi, Luigi Volpi, Ubaldo Riva, fino a Vittorio Mora e Umberto Zanetti.

30 – FERRUCCIO GALMOZZI

(1889 – 1974)

Un’altra importante presenza nella vita della parrocchia è data dal borghigiano Ferruccio Galmozzi, sindaco della ricostruzione di Bergamo.

Nato ad Annone d’Asti nel 1889, cominciò l’attività di medico ospedaliero a Bergamo nel 1915. Richiamato alle armi nel 1916 come ufficiale medico degli Alpini, tornò alla vita civile solo nel 1919.

Accanto alla intensa attività professionale, si dedicò alla vita amministrativa candidandosi al Consiglio Comunale cittadino nelle file del Partito Popolare. Eletto, fu chiamato nel 1922 dal Sindaco Paolo Bonomi come Assessore alla Sanità. Ma nell’aprile del 1923 l’intero Consiglio Comunale  diede le dimissioni data l’impossibilità di svolgere le proprie funzioni con dignità e libertà d’azione, ostacolato dal sempre più arrogante potere politico fascista.

“Scendendo la scalea del palazzo municipale con l’animo pieno di angoscia presaghi del futuro”, i consiglieri lasciarono la sede, come disse lo stesso Galmozzi nel suo discorso di investitura a Sindaco del 3 aprile 1946.
Dopo il ritorno alla sola attività professionale rimase tuttavia sempre molto attivo nella comunità parrocchiale di S. Caterina e nella Conferenza di S. Vincenzo.

Nel 1931 vinse per concorso nazionale il Primariato del Sanatorio dell’Ospedale di Bergamo, continuando anche la professione come medico di famiglia e di diversi istituti religiosi, distinguendosi come ‘medico dei poveri’.

Durante la Resistenza dovette affrontare una difficile situazione persecutoria facendo ricoverare in clandestinità la moglie, fervente cattolica ma ebrea di origine, a Gandino  presso le Suore Oesoline, mentre il figlio Nicola fu arrestato a Milano e detenuto per alcuni mesi nel carcere di S. Vittore.

Dopo la guerra fu chiamato dalla fiducia dei cittadini alla carica di primo Sindaco di Bergamo libera. A 56 anni  riprese l’attività a servizio della città. Affrontò con coraggio e serenità gravi problemi come quello dei reduci, degli sfollati e dei disoccupati. Avviò la costruzione di nuovi alloggi in varie parti della città, così come il risanamento di città alta, dando pieno appoggio all’opera dell’ing. Luigi Angelini. Curò l’acquisizione di spazi verdi, come il parco Suardi, del teatro Donizetti, del chiostro del Carmine in città alta, del complesso di S. Agostino, della Domus Suardorum e delle mura venete.

Lasciata la carica di sindaco nel 1956 ed in pensione da Primario dell’Ospedale dal 1957, istituì una Borsa di Studio per studenti di medicina, e per altri cinque anni, dal 1965 al 1970, fu Presidente dell’Ospedale, dando prova di grande capacità amministrativa. Alla sua morte, nel 1974, lasciò una cospicua donazione al Comune ‘per gli anziani’, che servì  per la costruzione della Casa degli Anziani.

Nel nostro borgo, nelle attività parrocchiali e nell’Azione Cattolica, la sua presenza attiva e vivace fu costante in numerose occasioni, di aiuto professionale e di conforto anche ai vari Parroci, da don Garbelli a Mons. Carrara, da don Guido Sala a don Silvio Ceribelli, in varie situazioni delicate e difficili.

Esemplare fu la sua figura di grande gentiluomo e galantuomo, di medico eccezionale per competenza scientifica e grande umanità, sempre vicino ai più bisognosi, raro esempio di dedizione, onestà e concretezza.

29 – MONS. BENIGNO CARRARA

(1888 – 1974)

Una figura veramente eminente tra i personaggi del Borgo e tra i parroci di S. Caterina fu Mons.Benigno Carrara.

Era nato il 19 dicembre 1888 a Serina, definita ‘terra di sacerdoti e di Vescovi’.  Nell’anno 1900 entrò nel Seminario di Bergamo dove frequentò  le classi dalla terza media alla terza liceo. Nel 1906 entrò in teologia presso il Collegio di Celana. Nominato diacono l’11 marzo del 1911, fu ordinato sacerdote il 23 aprile dello stesso anno da Mons. Radini Tedeschi nella chiesa di S. Alessandro in Colonna.

Venne quindi mandato come coadiutore nella parrocchia di S. Maria delle Grazie dove rimase per venticinque anni, dal 1911 al 1936.
La sua presenza in parrocchia fu interrotta il primo giugno del 1915, quando fu chiamato alle armi ed arruolato come soldato nella 3° compagnia di sanità fino al 5 novembre del 1916, quando venne nominato aiutante cappellano presso un ospedale militare di Milano. Visse la vita militare con difficoltà ma anche con determinazione e con fede e da cappellano con gioia per aver ripreso l’abito sacerdotale.

Terminato il periodo militare, con la fine della guerra, riprese il suo servizio alla parrocchia di S. Maria delle Grazie. Nel 1922 fu nominato Rettore del pensionato per studenti intitolato a Dante Alighieri, che era stato istituito da poco a cura della parrocchia di S. Maria delle Grazie.

Dal 1936 fu destinato alla parrocchia di S. Caterina, prima come economo spirituale, e dall’anno successivo, in seguito alla morte del parroco Garbelli, come parroco. Poté così continuare ed accentuare la sua attività pastorale rivolta a tutti, ma in particolare ai più deboli, anziani ed ammalati, ed ai giovani che educava con grande umanità, giovandosi di un eloquio convincente e con l’esempio di una vita totalmente dedicata agli altri.

Oltre alla attività pastorale vera e propria, si occupò dei lavori necessari per i restauri agli edifici parrocchiali. Nel 1938, in occasione del secondo centenario della costruzione, fece restaurare e nuovamente adornare la chiesa dall’ing. Luigi Angelini anche con la cooperazione di altri artisti, scultori, pittori e decoratori. I vari ed importanti lavori vennero inaugurati a maggio con la solenne celebrazione del secondo centenario della consacrazione. Nel successivo 1939 avvenne la costruzione della nuova casa parrocchiale.

Nei tristi anni della guerra le cure del parroco si diressero oltre che a tutti i parrocchiani presenti, anche e soprattutto a quanti erano stati chiamati alle armi ed alle loro famiglie, per aiutarli e confortarli, con la parola e moltissima corrispondenza affettuosa e rasserenatrice.

Nei momenti difficili dei rapporti con l’autorità fascista mantenne un atteggiamento fermo di netta opposizione, in difesa della chiesa e dei parrocchiani, ma anche sereno tanto da imporsi con la sua grande autorevolezza evitando gravi conseguenze.

Negli anni del dopoguerra, pieni di fermenti e speranze, ampliò le attività parrocchiali riportando a nuova vita l’Istituto dei Celestini, che era stato restaurato tra il 1938 e il 1939 dall’Ing. Luigi Angelini, affidandolo alle Suore Sacramentine di Bergamo che ne fecero l’orfanatrofio femminile di S. Giuseppe. Un’altra opera che ebbe le sue attente cure fu l’asilo Garbelli, che era stato fondato e costruito dal suo predecessore don Francesco Garbelli, al quale fu poi intitolato. Ugualmente attento al Santuario, per il quale non lasciò nulla di intentato per assicurarne il culto mantenendo e facendo rivivere la grande e bella festa dell’Apparizione del 18 agosto.

Il 20 dicembre 1947 fu nominato vescovo titolare di Gerapoli  e dato come coadiutore al vescovo di Imola. Fu consacrato il 1 febbraio 1948 nella chiesa di S. Caterina da Mons. Adriano Bernareggi. Una lapide posta sul fianco del presbiterio ricorda l’avvenimento.

Si rivolse ancora all’amico Ing. Luigi Angelini per disegnare il suo stemma, nel quale è raffigurata la Vergine Addolorata, richiamo al Santuario di S. Caterina, tre stelle, guida verso il porto della salvezza e rappresentanti le tre virtù teologali ed un’ancora, simbolo di speranza, con il motto paolino “Veritatem facientes in charitate”.

Con la morte del vescovo titolare divenne suo successore come Vescovo di Imola il 12 maggio 1956. Continuò così nella sua attività pastorale con la solita fermezza temperata da dolcezza di carattere. Fu sempre ben accolto, amato e stimato, pur in un ambiente difficile, per le sue grandi qualità di discrezione e pazienza. Instancabile annunciatore della Parola di Dio, trattò con sacerdoti e parroci, associazionismo cattolico, autorità e mondo del lavoro, dimostrando ottimismo e fiducia derivanti dalla forza del Vangelo.

Non dimenticò Bergamo, i bergamaschi e S. Caterina e frequenti e piacevoli furono le sue visite alla nostra città in particolari felici occasioni. Amichevoli e cordiali furono i rapporti con i vari vescovi, tra i quali naturalmente emerge la figura di Angelo Roncalli, Papa Giovanni XXIII.

Partecipò attivamente alle varie sedute del Concilio vaticano.
Ai primi giorni del 1973 si trovava in terra orobica mentre compiva ottantacinque anni di età e venticinque di ordinazione episcopale. Alla  fine di quell’anno la morte improvvisa del vescovo ausiliare lo gettò nello sconforto e lo convinse a fare un atto ufficiale di rinuncia per l’età avanzata e lo stato di salute. Dopo un ricovero a Castel S. Pietro tornò per la convalescenza nella terra bergamasca in una ospitale casa di parenti a Scanzorosciate.

Qui trascorse gli ultimi mesi amorosamente assistito e morì il 27 luglio 1974.
Fu sepolto nella cattedrale di Imola nel sepolcreto dei vescovi. Gli furono dedicate solenni onoranze funebri alla presenza di vescovi, sacerdoti e molta popolazione, tra la quale anche gente che, pur dichiarandosi agnostica, lo stimava come un galantuomo, riconoscendogli grandi qualità di dottrina e di pietà sacerdotale.

28 – LUIGI ANGELINI

(1884 – 1969)

Una figura eminente non solo del Borgo ma di tutta la città fu indubbiamente l’ing. Luigi Angelini. Nato il 20 dicembre 1884 nella casa paterna di via S. Caterina, proprio di fronte alla chiesa parrocchiale, dove poi visse e lavorò a lungo, fu studente del liceo cittadino ‘Palo Sarpi’, dove dimostrò presto un vivo interesse per gli studi scientifici, laureandosi quindi in ingegneria  al Politecnico di Milano nel 1907.

Nella casa natale si vedono ancora le belle parole che vi fece incidere e che definiscono con semplicità e chiarezza il suo carattere: “Nec habeo, nec careo, nec curo, sed satis est mihi aёre , luce, imaginibus ludere”.  (Non sono ricco, non sono povero, non me ne preoccupo. Mi basta giocare con l’aria, con la luce, con le immagini).

Dal 1909 al 1911 fu a Roma nello studio dell’architetto Piacentini, già vincitore nel 1908 del concorso per la risistemazione  del nostro centro cittadino, alla realizzazione del quale collaborò attivamente anche l’Angelini. Ufficiale del genio dal 1918 al 1919, continuò poi una vivissima attività di tecnico ed amministratore civico.

Dal 1920 al 1925 fu Consigliere comunale, membro per vari decenni di Commissioni per il Piano Regolatore, per il Cimitero, per i Giardini, per le Case Popolari, per l’Arte Sacra, per la Scuola Fantoni, per l’Accademia Carrara, socio dell’Accademia Pontificia e membro e quindi Presidente dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo, nella delicata fase della sua ricostituzione dopo il periodo successivo al 1927, e fino al 1974.

La sua attività specifica si svolse dimostrando grande competenza, rigore, intelligente inventiva e assoluta onestà in vari campi, dalla progettazione edilizia, civile e sacra, al restauro , all’arte grafica, dove eccelse creando centinaia e migliaia di disegni di eccezionale rilievo, precisione e abilità, illustrando monumenti, maggiori e minori, della nostra terra che visitava e studiava sul posto recandosi personalmente anche in bicicletta.

Numerosissimi sono i suoi saggi di architettura, di storia, di arte figurativa, di arte popolare bergamasca, di biografie di artisti recenti e passati.
Di assoluto rilievo ed interesse per il nostro Borgo e la nostra Parrocchia, di cui fu presidente della Fabbriceria, sono i suoi lavori per la progettazione dell’Asilo Infantile, ora Scuola Materna, del 1908, vari restauri della chiesa parrocchiale, per il rinnovo del campanile, per il restauro e la trasformazione del Convento e chiesa dei Celestini e quindi i disegni per il nuovo altare della Madonna nella chiesa parrocchiale, per sei grandi candelabri e sei minori in bronzo, offerti dai reduci della guerra 1915-18, per un calice d’oro in stile bizantino, ed infine per le due lampade pendenti nel presbiterio.

Ebbe, oltre alla stima generale, giusti riconoscimenti, dalle Medaglie d’Oro del Presidente della Repubblica, nel 1958, come Benemerito della Cultura e dell’Arte, della città di Bergamo, nel 1959, della città di Genova nel 1963 dell’Associazione Nazionale per i Centri Storici, Gubbio.

Morì a Bergamo il 7 novembre 1968.
Le sue numerosissime opere, studi e disegni sono la grande eredità che ha lasciato alla città ed al nostro Borgo.

27 – GIUSEPPE SICCARDI 

(1883 – 1956)

L’eccellente scultore Giuseppe Siccardi nacque ad Albino ma visse a Bergamo e particolarmente nel nostro borgo.

Nato il 18 luglio 1883, studiò dapprima col pittore Ponziano Loverini, del quale sposerà la figlia Antonietta, quindi all’Accademia Carrara, dove frequentò regolarmente i corsi. Fu poi a Roma, usufruendo di una borsa di studio, ancorché modesta. Visse la giovinezza in condizioni di grave disagio, tanto che non sempre poteva sfamarsi.

Al ritorno da Roma aprì uno studio proprio vicino al suo primo maestro, il pittore Loverini, divenuto suo suocero.
Modesto e molto sensibile, chiedeva spesso giudizi e consigli sia alla moglie che al Loverini.
Oltre che scultore in marmo e in bronzo e bassorilievi, fu finissimo disegnatore, modellatore abile ed originale, particolarmente nelle cere nelle quali esprimeva il suo temperamento sentimentale ed un’anima appassionata.

Lasciò un notevole numero di opere di rilevante importanza che riscossero l’ammirazione del pubblico ed il plauso della critica. Si possono ricordare il monumento alla Gloria sulla tomba di Mario Bianco, al cimitero di Bergamo, ed alla Pietà nel cimitero di Palazzolo sull’Oglio, poi le quattro statue di santi nella chiesa di S. Maria Annunziata a Como, i bassorilievi in bronzo della chiesa di Verdeggio in Brianza e di Gorlago. A Bergamo si possono ammirare le due imponenti statue del Diritto (Ius) e della Legge (Lex) che ornano l’ingresso del tribunale.

Fu definito  scultore poetico, originale, sensibile.Vissuto in un clima contraddittorio di ricerca, fu artista estraneo alle rivalità ed alle dissertazioni accademiche. Lavorò moltissimo, tra liberty e simbolismo, mantenendo una viva, originale personalità, operando nel sacro, nel funerario, nel profano e nella ritrattistica, con una sensibilità neo-romantica, sostenuto da una forza tecnica di mestiere. Fu insomma, fu detto, scultore di razza, di qualità, un grande che però visse quasi sconosciuto fuori dei confini patrii.
Morì il 18 dicembre del 1956, nella sua casa di via Fratelli Bronzetti, nel Borgo di S. Caterina.

26 – ANGELO PEDRALI

(1882 – 1958)

Tra le figure più caratteristiche ed emblematiche del borgo è certamente quella di Angelo Pedrali, interprete della sua gente come attore, dicitore e poeta di particolare, convincente spontaneità.

Nato in Piazza Pontida il 26 febbraio 1882, si trasferì con la famiglia in S. Caterina ancor ragazzo e qui visse tutta la vita. Studiò dapprima al Collegio S. Alessandro, poi, pure se la sua aspirazione era di diventare pittore, si applicò alla dura professione del fabbro, lavorando presso varie ditte e quindi in proprio con i fratelli nell’officina di via Moroni.

La sua vita quotidiana si svolgeva dopo il lavoro tra gli amici del borgo all’albergo dell’Angelo o delle Tre Corone, fra una partita a carte o a bocce e cordiali chiacchierate, osservando con attenzione persone e vicende che gli ispiravano versi e scenette teatrali.
Il teatro fu infatti la sua passione fin da ragazzo recitando in varie compagnie per più di cinquant’anni, sostenendo le parti più svariate, in dialetto o in lingua, con una comunicativa ed una mimica davvero eccezionali, degne di un grande attore pur senza aver mai frequentato alcuna scuola di recitazione.

In teatro e fuori era tipica e simpatica la sua figura, come la descrive Luigi Volpi: “Vigoroso, tarchiato, folte le sopracciglia che adombrano le sguardo serio e penetrante, ampio il torace, larghe le spalle e le mani grosse e forti, adusate al rude lavoro dell’officina”. Lo si vedeva spesso con le mani dietro la schiena, magari col sigaro in bocca.
La sua abilità nativa e del tutto spontanea gli permetteva anche di essere un inimitabile ed originalissimo ‘dicitore’ che sapeva alternare la commozione al riso.

Da attore e dicitore passò quindi, sia pure in età avanzata, a ‘poeta’. Solo infatti nel 1937 furono premiati i suoi primi sonetti ispirati alle bellezze del lago di Como. Da allora continuò nella triplice figura di attore, dicitore e poeta, entrando a far parte di quel singolare sodalizio del Ducato di Piazza Pontida che il comune amore per la propria terra e per la poesia legava in cordiale stima ed amicizia personaggi umili e figure di alto rilievo come Bortolo Belotti e Giacinto Gambirasio.

La sua vita si concluse nella casa ‘popolare’ di via Cairoli nel 1958.
Dopo i sonetti premiati nel 1937, come si è detto, fu notevole la sua produzione poetica in vernacolo, che egli stesso recitava e pubblicava, specie sul giornale ‘Il Giopì’. Nel 1943 apparve, nelle Edizioni Orobiche, la sua raccolta di poesie col titolo “Tra la Morla e la Tremana”, ad indicare l’origine casalinga e borghigiana della sua musa. A questa prima seguirono altre due edizioni, nel 1953 e, postuma, nel 1968, con varie prefazioni  di Luigi Volpi, Luigi Cortesi e Giacinto Gambirasio.

La sua poesia, come il suo teatro, nasceva da una arguta e vivace osservazione della gente a lui vicina, vista con molta simpatia e bonomia, descritta con un’arguzia fine, mai mordente, e profondo senso di umanità. Partecipava con solidale senso di fraternità ai temi tristi, con sincera piacevolezza agli aspetti giocosi  o comici, ai ricordi ed osservazioni serie, mai seriose, sugli aspetti più importanti della vita, come l’amicizia, e descrizioni attente e serene della natura, frequentemente concluse con blandi ma convincenti inviti al bene, all’amore solidale, alla serenità.

La tecnica poetica è rigorosamente rispettata. Scrisse sonetti, sestine ed ottave, tutte correttamente rispettose delle rime alterne e baciate, in lingua vernacola in cui non mancano espressioni dialettali quasi ormai dimenticate.
La sua poesia, scrisse Giacinto Gambirasio, fu ‘pronta alla commozione ed al pianto, non meno che al garbato umorismo ed alla giocosa risata’. E Luigi Volpi disse di lui che era ‘poeta non solo nel verso, ma nello spirito, nel cuore, nella gioia e nella bellezza, nella fraternità e nell’affetto, quasi come un canto ideale della nostra terra ‘.

Curiosi ed indicativi della sua personalità sono i due pseudonimi o nomi d’arte che si attribuì. Dapprima  “Malcontét” e poi, dopo la prima guerra mondiale, attenuato ed addolcito in “Contét”.

25 – LUIGI  BRIGNOLI

(1881 – 1952)

Pittore di grande rilievo nella storia artistica di Bergamo nei primi decenni del XX secolo. Nato a Palosco il 18 aprile del 1881, si trasferì ancor fanciullo, nel 1890 circa, a Bergamo, in via Colleoni in città alta. Di modesta famiglia, il padre era di professione straccivendolo, dopo le scuole primarie si iscrisse, nel 1893, alla Accademia Carrara dove fu allievo anche del famoso Tallone. Frequentò pure la Scuola Industriale dove ebbe assegnato un premio per il disegno applicato alle arti.

Nei vari anni di frequenza dell’Accademia ricevette diversi premi e menzioni onorevoli. Terminati i corsi alla Carrara nel 1902, si trasferì a Milano, presso il fratello Giacomo, potendo così frequentare per due anni l’Accademia di Brera, dove ritrovò il suo maestro Tallone.
Copiosa è la sua produzione pittorica e numerosi i premi ed i riconoscimenti. Un suo autoritratto fu accolto a Londra, alla Royal Academy. Nel 1905 si trasferì per un certo periodo a Zurigo, dove fu molto stimato per le sue opere ed anche ben rimunerato quale valente ritrattista.

Numerosi i trasferimenti: a Caravaggio, nel 1906, a Milano, sposato, nel 1910, finché nel 1922 effettuò il suo primo viaggio nel Nordafrica, a Biskra. Nel dicembre del 1923 tornò in Africa in compagnia dell’amico pittore Giorgio Oprandi. In Africa fu una terza volta nel 1924. In questi anni ebbe uno studio a Bergamo, in via Pignolo.
Pittore ‘nomade’, come si definiva, fece un viaggio in Spagna nel 1925. Ancora nel 1933 tornò a Tripoli, nel 1935 in Svizzera, Berna e Lucerna, nel 1947 ancora a Lucerna e di nuovo in Africa. Vedovo dal 1937, si risposò nel 1945.
In tutti questi anni fu intensissimo il suo lavoro sempre più apprezzato e stimato in numerosissime mostre a Bergamo, Milano e Napoli. Nel 1926 era stato nominato Cavaliere della Corona d’Italia e socio dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti.

Nel 1927 divenne Professore della Scuola di Pittura e Direttore dell’Accademia Carrara, succedendo al Loverini. Ma già nel 1930 aveva dato le dimissioni provocate da alcune spiacevoli incomprensioni con la Commissaria dell’Accademia ma anche certamente dalla sua voglia di libertà per dedicarsi completamente alla sua arte.

Morì il 22 ottobre 1952 nella sua casa di via Tasso, dove si era trasferito dopo un periodo di residenza a Milano.
La sua fu una pittura originale, creativa, verista, personalissima, comprendente centinaia di opere fra ritratti ed autoritratti, di viva penetrazione psicologica, soggetti storici ed ariosi paesaggi lombardi ed africani che avviarono quella tendenza artistica dei cosiddetti ‘africanisti’, che comprese diversi pittori bergamaschi.

Sicuro e convinto continuatore della vecchia ma sana scuola lombarda, fu definito dal Marangoni un serio professionista, appassionato e generoso che con ‘il gagliardo aspetto fisico è come il simbolo di quella gagliarda sanità morale ed estetica che le sue tele ostentano’.
Nel nostro borgo è ricordato da una via trasversale di viale Cesare Battisti, privata, tranquilla e circondata da verde e silenzio.

24 – GIUSEPPE MAZZA

FELIPO

(1879 – 1949)

Tra le figure caratteristiche che vissero ed osservarono la vita quotidiana  del  nostro borgo e seppero descrivere con autentica simpatia e vivacità le vicende degli umili, fu certo eminente quella di Giuseppe Mazza, accanto agli altri suoi amici e contemporanei, poeti vernacoli come lui, Renzo Avogadri ed Angelo Pedrali.

Nato proprio di fronte alla chiesa parrocchiale il 13 gennaio 1879, studiò in seminario fino al liceo.
Iniziò poi subito a lavorare presso la farmacia Rolla e quindi in una drogheria. Studiò anche canto, avendo una buona voce baritonale, presso la Scuola Musicale Donizetti. Si sposò nel 1907. Dopo la prima guerra mondiale si impiegò alla Società Elettrica Bergamasca fino alla pensione nel 1938. Visse sempre nel borgo, da via S. Caterina a via Suardi dove, insieme alla figlia Elisa, gestì una latteria. Qui morì il 9 marzo 1949.

“Borghigiano autentico dunque di nascita e di vita; ed il borgo fu il suo ambiente primario e fondamentale di osservazione e di esperienza”, come lo definisce Vittorio Mora. Di bassa statura, di ingegno vivace, aveva il sorriso pronto e l’arguzia sottile e bonaria.
La fama, se così si può dire, gli derivò dalla attività di poesia e di teatro dialettale. Tutta la vita fu attivo e presente in quel simpatico consorzio di amici, artisti, spiriti ameni che era il Ducato di Piazza Pontida.

Sulle orme di Ruggeri da Stabello, da lui considerato suo maestro, fu poeta vernacolo, fin dalla giovinezza. La sua fu una musa “vestita alla buona, che sosta nei crocicchi delle viuzze fuori mano, per ascoltare  le piccole beghe delle donnette del popolo”, come dice il Pelandi. Il Belotti lo considera “probabilmente più vicino di tutti all’anima del popolo, maestro nel trarre dal vernacolo le più caratteristiche espressioni”.
Più che autore di teatro fu collaboratore con altri e traduttore in bergamasco di commedie varie. Fu ammirato come attore vivace, originale, dalla battuta pronta, dall’invenzione improvvisa.

Col nome di Felipo scambiò lettere divertenti ed originali, in un miscuglio di dialetto e lingua, con la Rosina, (Renzo Avogadri) sul periodico Giopì, organo del Ducato, almeno fino al 1938, quando il giornale fu soppresso.
La sua poesia, generalmente faceta, ironica e satirica, ma sempre bonaria, non manca però di accenti elegiaci e dolenti di fronte ad aspetti tristi della vita, soprattutto dei più  umili.

Le sue composizioni poetiche e teatrali furono pubblicate in vita ma anche dopo la sua scomparsa, accompagnate da numerosi articoli e saggi editi dal 1949 in poi su riviste e giornali locali.
Nel nostro borgo il suo ricordo è vivo e mantenuto presente da convinte attività ed iniziative parrocchiali.

23 – LODOVICO GOISIS

(1875 – 1940)

Lodovico Goisis, pur non essendo stato borghigiano se non per brevi periodi che trascorreva nella sua villa di Redona, è senz’altro una figura eminente per il nostro borgo quale benefattore ed autore della ricostruzione del Convento dei Celestini e fondatore dell’orfanatrofio femminile.

Nato a Comunnuovo nel 1875, studiò a Bergamo all’Istituto Tecnico Industriale dove si diplomò perito industriale meccanico nel 1894. Per questa sua scuola conservò sempre un ricordo affettuoso, manifestato anche in fondazioni, borse di studio e generosi contributi per nuove costruzioni e nuovi impianti e macchinari.

Intraprese una carriera di tecnico che lo portò brillantemente ad occupare posizioni sempre più importanti e di responsabilità presso diverse industrie quali il Tecnomasio Casella di Milano, la fabbrica Marelli fino alla Società Acciaierie e Ferriere Lombarde Falck di cui fu Consigliere Delegato e Direttore Generale.
Fu chiamato ad incarichi pubblici nella Commissione Italiana in Parigi quale esperto  nel 1918 e 1919, Presidente nel 1937 del Consiglio Nazionale Approvvigionamento Materie Prime Siderurgiche ed infine Presidente dell’Ente Distribuzione Rottami.

In tutte queste cariche dimostrò altissimo impegno, energia nelle decisioni, sicura competenza, operosità eccezionale, unite e sostenute da una grande bontà d’animo e generoso senso di comprensione, doti rare ed inconsuete, tali da riscuotere unanime riconoscimento ed ammirazione. Alle sue indubbie e riconosciute qualità di dirigente industriale unì un elevato senso di civismo ed una costante attenzione per i bisognosi per i quali fu largo di aiuti e provvidenze.

Padre di nove figli, ebbe la sventura di perdere nel 1924 la diletta consorte Giuseppina Buonamici.
Alla sua memoria dedicò l’orfanotrofio femminile di S. Giuseppe da lui fondato, per il quale provvide ad acquistare dal Comune nel 1937 il convento dei Celestini, restaurato completamente dall’ingegnere Luigi Angelini e inaugurato, a lavori ultimati, il primo gennaio 1939.

Il convento, dopo essere stato Chiesa e Convento di S. Nicolò fino al 1794, era stato utilizzato per aule del Seminario diocesano, quindi come sede di un istituto di educazione maschile, poi di una caserma, di un convento di frati Cappuccini ed infine di un Ospedale dei Contagiosi. Ridotto in uno stato di degrado e di abbandono, l’intero complesso del convento e della chiesa fu riportato a nuova vita nelle antiche forme dalla generosità del Goisis e dall’abilità dell’ingegner Angelini, che provvide anche a ricuperare e riportarvi importanti e preziosi dipinti. Divenne così sede dell’Orfanotrofio Convitto Femminile in ricordo dell’analogo orfanotrofio di S. Giuseppe creato nel  1890 dallo zio Luigi Goisis a Campagnola.

Il Convento dei Celestini ospitò in seguito una scuola materna e la Casa Provincializia delle Suore Sacramentine che avevano gestito l’orfanotrofio.
Oggi ai piedi dello scalone che dà accesso ai piani superiori sono posti un artistico busto ed una lapide dedicati al benemerito fondatore ed alla sua opera.
Lodovico Goisis, Grand’Ufficiale e Cavaliere del Lavoro, morì dopo un breve e violento morbo, a Bergamo il 14 luglio 1940.

22 – DON FRANCESCO GARBELLI

(1868 – 1936)

Figura veramente eminente quella di don Francesco Garbelli. Nato il 3 giugno 1868 da famiglia  agiata nella parrocchia di S. Anna in Porgo Palazzo, dapprima allievo del Collegio S. Alessandro, entrò presto, a dieci anni, con vocazione precoce, in seminario dove si distinse per viva intelligenza, notevole volontà, naturale curiosità, tanto da affermarsi sempre tra i migliori, con votazioni tutte di nove e dieci.

Ordinato sacerdote il 20 dicembre 1890, fu dapprima destinato come coadiutore a Sombreno, dove si dedicò ad una viva attività pastorale, accentuandone l’aspetto sociale, suscitando anche critiche e opposizioni. Si dedicò poi particolarmente allo studio delle lingue antiche (ebraico, greco, latino) e moderne (francese, inglese, tedesco, spagnolo), così da poter leggere in originale le pubblicazioni scientifiche.

Anche negli anni seguenti continuò con vivo interesse e costanza a coltivare gli studi nei vari campi realizzando una cultura vasta e profonda che andava dalla filosofia alla teologia, dalla giurisprudenza alla sociologia. Per la sua grande cultura e per l’accentuato interesse per la questione sociale non potè sottrarsi al sospetto di ‘modernismo’ che tuttavia non intaccò mai la sua integrità.
Dal 1898 andò a vivere in Pignolo dedicandosi all’insegnamento della religione al Collegio S. Alessandro ed alla predicazione in varie località della diocesi.

Il 26 febbraio 1904, a soli 36 anni, fu nominato parroco in S. Caterina, dove rimase fino alla morte nel 1936, per ben trentadue anni. Come parroco sviluppò un’attività vasta e profonda in ogni campo, sostenuta da viva carità, ferma volontà e vasta cultura. Oggetto delle sue premure furono i giovani, per i quali costituì una biblioteca parrocchiale, e gli anziani, i malati ed i poveri, aiutati con affetto grande tramite la S. Vincenzo, attentamente seguita.

Fu delegato della Commissione ‘Pro Catechismo’ per i catechisti  della scuola primaria, esaminatore dei sacerdoti novelli, membro del Tribunale Ecclesiastico e dell’opera di S. Alessandro, dove si trovò con don Angelo Roncalli. Per un’educazione integrale, umana e cristiana, delle fanciulle curò l’oratorio femminile e per le giovani operaie organizzò scuole di cucito, lavoro e taglio.

Nel 1920 costituì il Circolo Giovanile Cattolico, intitolato poi nel 1925 a Domenico Savio. Con la Sportiva Excelsior, da lui fondata, organizzava gite e favoriva società filodrammatiche.
Curava al massimo la proprietà delle celebrazioni liturgiche, la pulizia e l’ordine anche esterno della chiesa. Attenzione viva ebbe per la scuola di canto. Per il Santuario provvide a restauri ed ampliamenti e ad arricchirlo di opere d’arte.

Il suo capolavoro, il grande sogno della sua vita, fu l’asilo per i bambini. Istituito nel 1908, costruendo l’edificio di via dei Celestini, progettato dal giovane borghigiano ingegner Luigi  Angelini, fu inaugurato il 15 novembre 1909, benedetto dal Vescovo Radini Tedeschi. Era stato reso possibile dalle oblazioni di privati e dal concreto contributo del parroco, con il suo patrimonio personale. Fu innovativo per i tempi, tanto che fu premiato con Diploma d’oro “per l’opera filantropica pro fanciulli meno abbienti” all’Esposizione Internazionale d’Igiene Sociale a Roma del 1911-12, mentre il ‘Signor Garbelli’ ebbe la medaglia d’oro “per la collaborazione quale Presidente dell’asilo infantile di S. Caterina in Bergamo”.

Carattere forte, parola schietta e sicura, incontrò molte opposizioni ed incomprensioni. Chiamato nel 1918 alla presidenza dell’Ufficio del Lavoro, d’ispirazione cattolica, che era sorto nel 1906 per l’organizzazione professionale degli operai e dei contadini, ebbe a sostenere e subire forti opposizioni interne ed esterne, tanto che fu indotto a dimettersi nel 1920. Durante gli anni del primo dopo guerra e quindi della dittatura fascista resistette decisamente a varie pressioni politiche in difesa della parrocchia e delle varie sue opere. Pur dichiarandosi ‘sfegatatamente antifascista’, rimase sempre nei limiti della sua missione sacerdotale.

Colpito da grave malattia invalidante, soffrì per anni sopportando cristianamente, ma continuò ad operare pur costretto sulla sedia a rotelle. Negli ultimi mesi andò tuttavia declinando nella vista e nella memoria. Colpito da affezione bronchiale, morì il 18 settembre 1936, lasciando profondo cordoglio e viva memoria di sé e della sua opera.

I funerali imponenti videro la presenza del Vescovo Bernareggi, di Mons. Gustavo Testa e dell’intero Collegio  dei parroci urbani e suburbani, e furono seguiti da una enorme folla.
Lasciò la sua ricca biblioteca personale al Seminario, mentre, con una precisa disposizione, volle che fossero distrutti  tutti i suoi scritti.
Sincero e fermo, talvolta poteva apparire duro e comunque tale da destar grande rispetto, anche per l’imponenza della figura e dell’alta statura. Tuttavia non erano rare le manifestazioni  di grande tenerezza, affetto e finezza d’animo.
Fu un personaggio profondamente amato e talvolta contestato, ammirato e discusso, ma comunque eccezionale.

21 – GIUSEPPE RIVA

(1861 – 1948)

Giuseppe Riva nacque a Bergamo nel 1861. Il padre Battista era un buon pittore affermato con il quale il figlio collaborò attivamente per molti anni, avendo anche in comune lo studio. Pur avendo avuto come primo maestro il padre, il giovane Giuseppe frequentò dal 1872 l’Accademia Carrara, allievo di Enrico Scuri.

Già dal 1878 e 1880 espose sue opere all’Accademia, ricevendone lusinghieri apprezzamenti. Nel 1881 andò a Roma dove vinse un concorso per un posto alla Real  Accademia di Belle Arti. Nel 1882 partecipò alla prima Esposizione Internazionale di Roma con alcuni acquerelli. Nel 1883 fu di ritorno a Bergamo dove iniziò un’attività intensissima, esponendo sue opere alla Carrara, ricevendo molte commissioni per dipinti di carattere sacro per chiese della città e della provincia, oltre che di altre regioni e stati.

Sue opere, tele e affreschi, sono infatti presenti sia a Torino, Chieri, Genova e Cremona che all’estero, in California ed Agra, nell’Industan, ma soprattutto in provincia di Bergamo, come, ad esempio, a Chignolo d’Isola, Almè, Adrara S. Martino, Martinengo, Almenno S. Bartolomeo, Calcinate, Cividate al Piano ed altre chiese.

Nella nostra città dipinse affreschi nella chiesa di S. Andrea, in Santa Grata inter Vites in Borgo Canale, nella parrocchiale e nel Santuario di S. Caterina. Qui in particolare sono numerose le sue opere come la famosa ‘Apparizione della Stella’, la ‘Fuga in Egitto’ e la ‘Presentazione al Tempio’, sulla volta delle navate e degli altari, oltre ad otto angeli portatori degli strumenti della passione di Cristo od in preghiera ed inginocchiati. Quattordici tavole inoltre rappresentano le stazioni della ‘Via Crucis’.

Fu attivissimo fino al 1910, quando morì il padre, con il quale aveva molto collaborato. Si trasferì allora nel borgo in via Del Caffaro, nel quartiere Finardi. Dopo fu ancora attivo ma per committenze private, dipingendo parecchi ritratti e più di un autoritratto fino a tarda età.
Della sua opera di ritrattista egregio sono documenti , oltre che altri meno noti, i ritratti del Cardinale Agliardi e del Cardinale Cavagnis, ora entrambi nelle sale del municipio di Bergamo. Almeno tre bellissimi autoritratti, dipinti in tarda età, lo presentano nella sua natura di estroso e simpatico artista.

La sua pittura, pur derivando da una scuola profondamente ottocentesca, si vivacizza e rinnova. Fu anche pittore ‘storico’ riuscendo, anche nei soggetti sacri, a far emergere il piglio e la magnificenza storica. Sono particolarmente validi alcuni suoi dipinti di soggetto, appunto, storico o di carattere, quali la ‘Gitana’, il ‘Soldato arabo-turco’, l’Armigero’, conservati in collezioni private.

Va infine ricordata la sua attività di restauratore di affreschi e dipinti antichi, quale conoscitore profondo e appassionato delle tecniche dei maestri dei secoli passati. Suoi restauri sono stati attuati a Bergamo nella cupola del Duomo e nella chiesa del Pozzo Bianco, poi a Zandobbio e nella basilica del Santo a Padova.
Negli ultimi anni, ed anche dopo la morte, fu quasi dimenticato da quella stessa stampa che molto l’aveva celebrato negli anni della sua massima attività.
Morì il 23 giugno 1948.

20 – ELIA FORNONI

(1847 – 1925)

L’ingegnere ed architetto Elia Fornoni, borghigiano, è una figura di assoluto rilievo nella vita e nella cultura cittadina tra il XIX ed il XX secolo.
Nato il 29 maggio 1847 in Bergamo, qui visse e lavorò e qui morì il 5 ottobre 1925.

Fu progettista, costruttore, restauratore di numerose opere pubbliche, particolarmente sacre, e private, tra le quali spiccano l’Ospedale Psichiatrico, la casa di ricovero della ‘Clementina’ e la cupola del Seminario, oltre a vari edifici religiosi, chiese, cappelle, campanili e numerosissimi altari e decorazioni interne, ville e case private.

Insegnò matematica e scienze alla Scuola Fantoni, al Ginnasio-Liceo ed all’Istituto tra il 1884 ed il 1906. Alla vita pubblica dedicò serio impegno e riconosciute capacità tecniche e scientifiche come consigliere ed assessore al Comune di Bergamo tra il 1887 ed il 1909. Fu presidente del Circolo Artistico dal 1895, socio, dal 13 febbraio 1881 e quindi, dal 1902 al 1920, presidente dell’Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo.

Eccezionale la sua produzione di opere e studi di storia e di arte riguardanti non solo la città di Bergamo ma anche altre località della provincia come Alzano, Gandino ed Almenno. Sono decine gli studi su località, chiese, personaggi, artisti e monumenti  visti ed esaminati nelle varie epoche, dalle origini alla contemporaneità.
Opera sua è la nuova facciata del Santuario dell’Addolorata inaugurata nel 1898 su precedente disegno di don Antonio Piccinelli, da lui elaborato e modificato.

Diligente raccoglitore di notizie e dati, ha lasciato oltre settanta volumi di monografie ed articoli, editi e manoscritti.
A lui è dedicata una breve via tra via Suardi e via Codussi.

19 – PONZIANO LOVERINI

(1845 – 1929)

Legato al Borgo di Santa Caterina è il grande pittore Ponziano Loverini. Qui infatti visse quale  studente dell’Accademia Carrara all’albergo dell’Angelo dal 1857 al 1860, quindi in casa del sacerdote don Antonio Piccinelli, di cui sposò la sorella Orsola nel 1880, fino al 1921 quando, ormai vedovo, andò ad abitare con la figlia Antonietta, sposa dello scultore Siccardi, in via Fratelli Bronzetti.

Nel borgo lavorò intensamente, visse gioie e dolori, coltivò le amicizie più belle ed i rapporti di lavoro più significativi e fu membro della fabbriceria della parrocchia dal 1910 fino alla morte. Dalla popolazione, oltre che da personalità religiose e civili, ebbe costante amore e stima. La sua presenza era quasi quotidiana al famoso caffè Urio dove incontrava in lieti e gioiosi conversari gli amici artisti e letterati.

Era nato a Gandino il 6 luglio 1845 da una modesta famiglia di artigiani. Per la sua naturale, spiccata predisposizione al disegno ed alla pittura fu avviato, per interessamento dello zio paterno don Lorenzo, alla scuola di pittura di Enrico Scuri all’Accademia Carrara.
Si affermò presto per le sue qualità ottenendo numerosi premi e riconoscimenti. Nel 1877 fu inviato all’Esposizione di Napoli quale allievo dell’Accademia.

Sue opere vennero presentate più volte a Brera. Ebbe anche una trasferta a Londra, dove erano stati inviati alcuni suoi dipinti. Ebbe premi all’Esposizione Nazionale di Milano. Nel 1893 fu eletto socio dell’Ateneo di Scienze, Lettere e Arti di Bergamo. Con altri poeti, pittori e scrittori fondò nel 1895 il Circolo Artistico Bergamasco. Nel 1897 fu nominato Cavaliere dell’Ordine di S. Gregorio Magno e nello stesso anno ebbe la Commenda dei Santi Maurizio e Lazzaro.

Nel 1898 fu nominato Professore e Direttore della Scuola di Pittura dell’Accademia Carrara. Nel 1910 fu nominato Cavaliere e nel 1920 Commendatore dell’Ordine della Corona d’Italia.
Alle sue dimissioni da direttore nel 1926 venne nominato Professore Onorario della Carrara. Il 21 agosto 1929 moriva nella sua casa di Gandino, dopo aver dipinto l’anno prima il suo ultimo, sofferto e mirabile autoritratto.

La sua produzione di quadri ed affreschi è vastissima. Per il suo primo biografo Angelo Pinetti sono ben 255 le opere eseguite tra il 1869 e il 1928.
Illustrano temi prevalentemente religiosi, ma spiccano anche quadri storici e numerosi ritratti ed autoritratti. Molte sue opere di carattere sacro sono conservate in chiese della bergamasca, dalla sua Gandino a Trescore, da Barzizza a Stezzano, Verdello, Martinengo, oltre che in Bergamo, a Sant’Alessandro in Colonna, al seminario, in S. Bernardino, S. Salvatore e nella cappella del cimitero.

Notevole la presenza di sue opere a Pavia, nella chiesa di S. Pietro in Ciel d’Oro, a Desio, a Pompei, a Firenze, nella Galleria degli Uffizi, con un suo autoritratto, e nella Pinacoteca Vaticana con la grande tela dedicata a S. Grata e Sant’Alessandro. Importante è il dipinto nella basilica di Gandino del 1924 dedicato all’Assunta ed ai santi protettori, dove nell’effigie del Santo Ponziano Papa ritrasse se stesso. Fu un ottimo ritrattista anche di autoritratti. Famoso è il ritratto di Angelo Mazzi. Come pittore di scene storiche sono da ricordare alcune opere giovanili dedicate al Galilei ed al Colleoni ed una bella tela del 1891 illustrante ‘Gli ultimi giorni di Gaetano Donizetti’.

Sono da ricordare le numerosissime opere nella chiesa e nel Santuario di S. Caterina. Da ammirare nella parrocchiale il grande quadro di ‘Cristo in croce’ ed il ritrattto del parroco don Domenico Mazzi-Amadei e, nella Scuola Materna, la tela ‘L’Offerta’, donata nel 1926 dallo stesso  autore. Sono opere sue i numerosi affreschi del Santuario con i molti angeli e simboli agli altari, sulle volte e nelle cupole.

La sua arte, sostenuta da una intensa e profonda spiritualità derivantegli  dalla formazione famigliare, erano infatti sacerdoti uno zio, un fratello ed il cognato, e da una cultura locale permeata di severità morale, si ispirava all’eredità figurativa lombarda che in parte risentì anche dell’impressionismo senza però che ne fosse intaccata la sua forte personalità artistica, che seppe uniformarsi al gusto moderno senza trascurare la ricca tradizione.
A lui è intitolato nel borgo un Piazzale sul lato sinistro della via Corridoni.

18 – DON  ANTONIO PICCINELLI

(1843 – 1903)

Nato nel Borgo di S. Caterina il 23 maggio 1843, studiò nel Seminario di Bergamo fino all’ordinazione sacerdotale nel 1867. Fu dapprima coadiutore ad Almenno S. Salvatore e ad Urgnano.

Dal 1874 fino alla morte insegnò disegno al Collegio S. Alessandro di Bergamo. Si diplomò anche in disegno all’Accademia di Brera. Lavorò intensamente nella progettazione di edifici sacri oltre che nella Diocesi di Bergamo anche in quelle di Brescia, Milano, Como ed altre. Di lui sono infatti 470 disegni per 37 nuove chiese e cappelle, per oltre 108 chiese varie, ampliate o rimaneggiate, per altari, campanili, e per soffitti, decorazioni, balaustre, sagrestie e locali vari, sacri e civili.

Visse sempre nel borgo esercitando anche le funzioni  di Cappellano della Casa delle Convertite. Morì il giorno 8 giugno 1903 nella sua casa in via S. Caterina.
Il suo nome e la sua presenza sono importanti per il nostro borgo perché, oltre ad esservi vissuto, diede la sua opera per i lavori di ampliamento e di restauro del Santuario, per progettare i quali ebbe l’incarico dalla fabbriceria nel 1885. Da allora e fino al 1903, cioè fino alla morte,   fu costante la sua attività nel progettare, proporre e seguire i lavori.

La sua collaborazione con la parrocchia nello spazio di quasi vent’anni incontrò molte difficoltà e contrarietà che gli procurarono non poche amarezze. I suoi progetti furono a più riprese criticati radicalmente, se pure in forma garbata, dall’ing. Elia Fornoni che era stato consultato dalla fabbriceria. In realtà il Piccinelli era un ottimo disegnatore e artista mentre il Fornoni era una esperto ingegnere. Si dichiarava amico del Piccinelli di cui scrisse: “amantissimo dell’arte si occupò di essa e dei suoi cultori, non solo, ma si divertì a dipingere ed esercitare l’architettura”. In queste parole si può rilevare l’opposizione del tecnico architetto verso l’artista che “ si divertiva ad esercitare l’architettura”, quasi un dilettante.

I lavori di ampliamento del Santuario si conclusero solo dopo la morte  del Piccinelli e secondo i progetti  del Fornoni che modificò quelli del predecessore. Del Piccinelli restano realizzati secondo i suoi disegni  la cupoletta, tre altari, le decorazioni della navata e molti stucchi.

17 – GIOVANNI  FINARDI

(1840 – 1904)

L’avvocato Giovanni Finardi nacque a Bergamo in città alta, nella casa paterna in contrada S. Salvatore, il 5 agosto 1840. Studiò al liceo cittadino, allora imperial-regio, dove si distinse vincendo tre volte il premio Maccarani, quindi alla facoltà di legge prima a Padova e poi a Pavia.

Appena ventenne accorse ad arruolarsi con la seconda spedizione Medici che raggiunse Garibaldi in Sicilia dove il giovane Finardi combattè valorosamente a Milazzo ed al Volturno fino alla presa di Napoli.
Dopo la laurea visse e lavorò per vari anni a Milano nello studio del celebre avvocato Molinari. Nuovamente nel 1866 partecipò con Garibaldi alla campagna nel Trentino distinguendosi  nel fatto d’armi di Vezza d’Oglio con la colonna Castellini.

Tornato a Bergamo si dedicò, oltre che ad una sua azienda agricola ed allo studio legale, anche e soprattutto, ad una intensa attività politico-amministrativa come consigliere e presidente della Congregazione di Carità dal 1870 al 1889, del Conservatorio e della Cappella Musicale di S. Maria Maggiore nonché nel Consiglio Comunale. Qui, aderendo al partito liberale moderato, rimase dal 1871 fino alla morte.

Fu eletto Sindaco e quindi due volte deputato al Parlamento nazionale. Fu anche consigliere nell’Amministrazione Provinciale. La sua presenza fu attiva pure in altre istituzioni civiche quali l’Accademia Carrara, l’Istituto Tecnico, la Biblioteca Civica ed in numerose commissioni che si avvalevano della sua competenza ed assoluta rettitudine ed onestà riconosciutegli da tutti, amici ed avversari.

Morì il 27 maggio 1904 nella sua villa di Redona.
I figli, in onore del padre garibaldino, costituirono all’inizio del secolo il “Quartiere Finardi” a Redona con villette e piccoli condomìni, in zona residenziale, intitolando le vie, tracciate dall’ing. Angelo Finardi, a personaggi e luoghi dell’epopea garibaldina.

16 – MONS. LUIGI BANA

(1839 – 1917)

Una figura eminente di educatore e sacerdote, noto e stimato, ma anche avversato, in città nella seconda metà del XIX secolo, fu un eccellente borghigiano di S. Caterina, Mons. Luigi Bana.

Era nato il 21 dicembre 1839 da distinta e ricca famiglia abitante al centro del borgo, di fronte alla colonna votiva del Santuario. Di precoce e sicura vocazione entrò presto nel seminario diocesano dove si segnalò per intelligenza, pietà e assiduità allo studio, tanto che fu scelto come prefetto dei chierici.

Ordinato prete nel 1872 fu nominato ufficiale di curia ma continuò ad occuparsi della parrocchia nativa, specialmente del Santuario, del quale rimase cappellano fino al 1877.
Dal rettore Mons. Valsecchi fu chiamato ad insegnare al Collegio S. Alessandro e nel 1873 divenne rettore dello stesso collegio, accettando, pur contro voglia, e solo per ubbidienza, di succedere al Valsecchi e di riaprire e dirigere l’istituto che era stato duramente combattuto e costretto a chiudere da preminenti ed ostili forze anticlericali della città.

Resse il Collegio per ben 42 anni, cioè fino alla morte, riuscendo a difenderne la vita e l’operato fino a trasformare  l’ostilità preconcetta, anche di autorità, in sincera ammirazione e stima per il suo operato. Di figura aitante e naturalmente nobile e severa si imponeva spontaneamente al rispetto ed alla stima di alunni, professori, famiglie ed autorità e, con una costante sorridente bonomia, che rivelava una profonda bontà ed amabilità, ne conquistava anche l’amore. La sua direzione del Collegio S. Alessandro fu talmente efficace e generalmente apprezzata che per molti anni, anche dopo la sua morte, si continuò in città a parlare di Collegio Bana.

Oltre all’attività dedicata al suo collegio ad accentuarne e migliorarne le finalità educative civili e religiose, rivolse la sua opera ed il suo aiuto anche economico ad altre istituzioni caritatevoli e sociali quali l’Asilo infantile di Borgo S. Antonio, da lui presieduto fin dalla fondazione, i vari circoli cattolici di S. Luigi e S. Giuseppe, e la partecipazione alla buona stampa, come il giornale cittadino L’Eco di Bergamo.

Durante la prima guerra mondiale offrì il collegio come sede di Ospedale Militare, mettendo a disposizione 200 letti, l’arredamento necessario e la propria prestazione gratuita.
Gradualmente la fama e la stima di cui godeva andò aumentando. Canonico Onorario della Cattedrale nel 1887, fu nel 1900 Prelato Domestico di Sua Santità, membro della Commissione per la Pia Opera S.Alessandro, delegato alla Disciplina della Religione. Non solo in campo ecclesiale ma anche nel mondo civile ebbe riconoscimenti ed onorificenze: due medaglie di benemerenza dal governo nazionale per avere assistito i feriti di guerra ricoverati nel l859 in Seminario ed i colerosi nel 1877 ai Celestini, ed un calice d’argento del Comune di Bergamo  come riconoscenza dei concittadini ed è probabilmente quello offerto dalla famiglia Bana al nostro Santuario.

Il socialista Sebastiano Zilioli, già suo alunno, lo commemorò alla sua morte con parole di alta stima ed affetto.
Morì il 1 luglio 1917. Le onoranze funebri furono imponentissime con il concorso di alunni ed ex-alunni, istituzioni ed autorità civili e religiose, testimoniando come le sue virtù umane di bontà, intelligenza e dedizione al prossimo, unite alla profonda pietà sacerdotale, abbiano potuto conquistare la stima e l’affetto di tutti, amici ed avversari.

15 – GIOVANNI PEZZOTTA

(1838 – 1911)

Il pittore Giovanni Pezzotta,  nato ad  Albino il 6 maggio 1838 dalla modesta famiglia di un lavorante fornaio, frequentò le scuole elementari nel comune di nascita, facendosi presto notare per una particolare attitudine al disegno.

Dal 1852, in seguito a domanda, fu ammesso alla scuola di pittura dell’Accademia Carrara. Gli anni di studio furono particolarmente duri, anche perché doveva percorrere a piedi quasi quotidianamente la strada da Albino a Bergamo e ritorno. Godeva tuttavia dell’affetto e della stima di Enrico Scuri, direttore e docente, dal quale era anche aiutato in certe particolari  circostanze di bisogno. Negli anni successivi si distinse ottenendo diversi premi e la possibilità di continuare a frequentare l’accademia fino oltre il 1870, eseguendo diversi dipinti su commissione così da rendere meno disagiate le sue condizioni economiche.

Nel 1870 si sposò e venne ad abitare a Bergamo, in via S. Tomaso, dove poté usufruire di un ampio studio.
Pittore molto fecondo, espose numerose opere sia alla Carrara che a Brera, a Milano, senza tuttavia avere un apprezzabile riscontro economico. Così  nel 1879 accettò l’offerta di recarsi a Costantinopoli, con altri pittori bergamaschi, per la decorazione di un grandioso palazzo nel quartiere di Pera, di proprietà di un italiano. Vi rimase quattordici mesi eseguendo, oltre ai dipinti sulle pareti del palazzo con visioni panoramiche d’oriente, anche ritratti e scene di genere. Di ritorno a Bergamo continuò un’attività  intensissima.

Per due volte concorse alla cattedra di pittura e direzione dell’accademia, nel 1885, quando vinse invece il Tallone, e nel 1899, quando dovette cedere al Loverini, che fu ritenuto più  idoneo all’insegnamento per “metodiche abitudini di vita”. Pesò forse negativamente sul giudizio il suo temperamento piuttosto irrequieto, dimostrandosi più amante del vino che dell’acqua, frequentando le varie osterie del Borgo di S. Caterina. Si scrisse di lui, certo esagerando, che lavorava alacremente nel suo studio per alcuni mesi all’anno, trascorrendo poi gli altri mesi dandosi buon tempo con gli amici.

Dopo la via S. Tomaso andò ad abitare al n. 9 di via  Borgo S. Caterina e quindi presso il figlio Alessandro in via Cesare Battisti 15, dove morì il 18 luglio 1911.
Oltre ad Alessandro aveva avuto altri due figli, a lui premorti, Daniele, il primogenito, morto  nel 1896  e Maria, morta nel 1899, e poco prima  gli era mancata anche la moglie.

La sua produzione pittorica fu eccezionalmente vasta e feconda, con dipinti comprendenti episodi sacri, ritratti e scene caratteristiche, oltre ad alcune Vie Crucis ed affreschi, molto numerosi, di carattere religioso. Varie sono le opere che decorano la nostra chiesa parrocchiale di S. Caterina ed i locali adiacenti ed in modo particolare il Santuario. Si tratta di cinque dipinti ad olio conservati nella parrocchiale, tra i quali spiccano  le due grandi tele dedicate a S. Cecilia ed al re Davide, di un’altra tela, presso la scuola materna, rappresentante Cristo con la Croce.

Al Santuario vi è l’importante dipinto rappresentante il Crocifisso e tre figure piangenti, e ben diciannove affreschi, di cui undici nelle volte delle cappelle, del presbiterio e delle grande cupola, ed otto nelle vele sotto la cupola e sotto il coro, con i profeti e i dottori della Chiesa.
Delle sue opere scrissero diversi critici, sia in vita che dopo la sua morte. In genere fu giudicato artista notevole, dotato di buone qualità pittoriche, padronanza dei propri mezzi e ricco di una particolare arguzia rappresentativa.

Molto apprezzati sono alcuni ritratti ed autoritratti nei quali spiccano le sue migliori e personali qualità. Dipinse forse troppo, tanto che furono ben 260 i titoli contati. Pittore tanto valente  quanto modesto, non si preoccupò di farsi un nome. Negli anni e nei decenni successivi numerosi sono stati  gli scritti e le mostre che ne hanno illustrato la personalità e le opere, ma la sua fama non riuscì  a superare i limiti provinciali, anche se sicuramente l’avrebbe meritato.

14 – DON DOMENICO MAZZI AMADEI

(1813 – 1887)

E’ uno dei più notevoli parroci della chiesa di S. Caterina, sia per la sua statura di sacerdote che per la eccezionale durata della sua presenza in parrocchia, protrattasi per ben 44 anni.

Nato nel borgo il 28 febbraio 1813 e battezzato nella parrocchiale, figlio di Bartolomeo, uomo di forte ingegno e sicuri principi cristiani, e da Domenica Pedrettti, molto pia e saggia, che visse col figlio prevosto fino al 1847, crebbe nel borgo negli anni dell’adolescenza, frequentando le scuole dell’Accademia Zenoni ai Celestini. Dopo gli studi ginnasiali entrò nella carriera ecclesiastica dimostrando vivo ingegno, memoria facile e tenace, lodevole profitto, fino all’ordinazione sacerdotale del 18 ottobre 1835.

Di salute cagionevole fu lasciato nella sua parrocchia nativa. Ma l’anno successivo 1836, durante la violenta epidemia di colera, chiese, spinto dalla sua naturale carità e da eminente zelo sacerdotale, ed ottenne dal prevosto di allora Canonico Acerboni di essere addetto all’assistenza dei malati. Tanto fu ammirevole la sua azione caritatevole che, nonostante la sua naturale riluttanza, dovette accettare la nomina a Prevosto nel 1843, a soli 30 anni.

Nel lungo periodo della sua presenza nella parrocchia si fece notare, stimare ed amare per il carattere dolce, umile e mansueto, alieno dall’ostentare i propri pregi. Pur essendo dottissimo in letteratura, teologia e storia ecclesiastica, si distinse anche e soprattutto per la sua laboriosa ed indefessa azione a favore dei parrocchiani e per il suo dimostrarsi fermo ed irremovibile nei principi della verità e della giustizia.

Il Canonico Alessandro Pesenti Magazzini, suo condiscepolo, nell’illustrarne la figura ai suoi funerali, il 28 marzo 1887, così si esprimeva: “La sua attività era tutta a cercare e fare continuamente il maggior bene colla pace e colla quiete, non mai sciupare le proprie energie in litigi e diverbi, ma volgerle accortamente a provvedere per tempo affinché non avvenissero o, qualora sorgessero, calmarli colla mansuetudine, colla pazienza, colla dolcezza, colla carità “.

Per tutte queste virtù e per la particolare piacevolezza del suo conversare fu stimato da confratelli e superiori, da Mons. Speranza a Mons. Valsecchi e Mons. Carsana, Vescovo di Como e sacerdoti, prevosti e canonici. Consumò il suo non ricco patrimonio personale a favore dei poveri e delle opere parrocchiali riducendosi anch’egli povero per i suoi poveri. Rispettoso ed affabile con tutti, arguto, persuasivo nel lodare e nel correggere.

Dal 1855 al 1886 seguì diverse opere di ampliamento del santuario, conclusesi col trasporto all’altare maggiore del dipinto miracoloso. Del 1861 è il restauro dell’organo di Giacomo Serassi. E’ sua opera anche l’istituzione dell’oratorio femminile, eretto a sue spese.
Morì nel 1887 dopo tre anni di penosa malattia. Di lui resta un bel ritratto nella sagrestia, forse del pittore Ponziano Loverini del 1887, ed alcuni documenti di carattere storico come le “Memorie 1874-1883”, da lui redatte e conservate nell’archivio parrocchiale.

13 – FERDINANDO CRIVELLI

(1810 – 1855)

L’architetto Ferdinando Crivelli, nato il 16 giugno 1810 nel Borgo di S. Caterina, dove viveva la famiglia, fu battezzato nella chiesa parrocchiale il 10 luglio. Il padre Carlo Antonio, detto “svizzero”, perché  nato forse in una frazione vicino a Mendrisio in Svizzera, era capomastro ed impresario appaltatore. Rimasto vedovo pochi giorni dopo la nascita del piccolo Ferdinando, si risposò nel 1815, ebbe una numerosa prole e morì nel 1838. Sue sarebbero alcune opere, quali la barriera delle Grazie ed il ponte sul fiume Brembo a Ponte San Pietro, poi erroneamente attribuite al figlio.

Ferdinando fu allievo dal 1823 dell’Accademia Carrara, alla Scuola di Architettura ed Ornato, diretta da Giacomo Bianconi. Dal 1832 al 1835 frequentò la Scuola di Architettura dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, dove si distinse vincendo alcuni premi. Dopo un praticantato presso l’ingegnere Giovanni Pegoretti dal 1835 al 1837, ottenne l’abilitazione alla professione.

Nonostante un’intensa attività artistica e professionale, sentiva l’urgenza di ampliare la propria cultura, tanto che all’età di trentatré anni riprese gli studi  frequentando le classi del ginnasio e del liceo e successivamente la facoltà di matematica dell’Università di Pavia dove conseguì il diploma di perito agrimensore nel 1849. Per esercitare questa professione dovette quindi fare un periodo di praticantato presso l’ingegner Pagnoncelli e nel 1851 conseguì l’abilitazione  alla libera professione di perito agrimensore.

Per questa poliedrica personalità, oltre che per l’intensa attività artistica, fu eletto socio dell’Ateneo di Scienze, Lettere ed Arti di Bergamo il 9 luglio 1846. Morì ancor giovane il 5 aprile 1855, poco dopo essersi sposato.
Ferdinando Crivelli è soprattutto noto per le sue opere di architettura ispirate ai modelli neoclassici, ed in particolare a Vitruvio ed al Palladio. Al nuovo ospedale di Romano di Lombardia, progettato fin dal 1837, seguì il Palazzo Serassi, per la committenza della celebre famiglia di organari. Progettato e realizzato tra il 1837 ed il 1846 sulla nuova strada Ferdinandea nelle vicinanze della Porta di Sant’Agostino, il palazzo era dedicato alla fabbrica di organi. Più tardi prese il nome di Palazzo Stampa.

Ancora tra il 1837 ed il 1847 il Crivelli costruì la chiesa di S. Andrea, poco sopra la Porta di S. Agostino. Altre opere minori sono un progetto dell’altare maggiore della parrocchiale di Villasola, realizzato però e modificato da Angelo Cattò nel 1841 ed un altare laterale dell’Immacolata Concezione nella chiesa parrocchiale di Adrara S. Martino, del 1844.

L’opera ritenuta il suo capolavoro è la fabbrica del nuovo edificio per l’Imperial Regio Ginnasio Liceale di città alta, ora Liceo Sarpi. Nel 1839 il Crivelli fu incaricato di predisporre il progetto utilizzando l’area dell’ex monastero di Santa Maria di Rosate. Approvato nel 1842 ebbe esecuzione tra il 1845 e il 1850 e completato nel 1852, superando molte difficoltà strutturali dovute anche alla irregolarità dell’area. Il Pinetti lo definì “Costruzione veramente superba e di classica nobiltà”.

Altre opere sue furono il progetto di ristrutturazione ed ampliamento del palazzo Ghidini  a Ghisalba, del 1853, e la ricostruzione della cupola del Duomo di Bergamo, realizzata tra il 1851 e il 1853.
Di interesse nostro locale del Borgo di S. Caterina è un incarico avuto dalla fabbriceria della parrocchia per il “ristauro” del Santuario. Alcuni disegni suoi, relativi a due successivi progetti di ampliamento del 1841 e 1842,  sono tuttora conservati nell’archivio parrocchiale. Non furono tuttavia realizzati ma servirono di ispirazione e di modello per i lavori che solo più tardi furono effettuati al Santuario.

12 – PIETRO RUGGERI

(1797 – 1858)

Pietro Ruggeri, considerato il più notevole poeta vernacolo bergamasco, è comunemente designato “da Stabello”, la frazione di Zogno dove nacque il 15 luglio 1797.
Dei suoi studi poco si sa. Dopo un infelice rapporto con un primo precettore, ebbe la guida di don Carlo Botta e, per un certo tempo, l’insegnamento dell’abate Giovanni Battista Baizini, professore di lettere nelle scuole pubbliche di Bergamo.

Da giovane collaborò forse col padre droghiere e ‘confetturiere’, guadagnandosi il nomignolo di ‘confetì’. Raggiunse presto una certa fama tra le famiglie più cospicue  della città per molte poesie d’occasione, in genere in lingua italiana, per  nozze, nascite e compleanni.
Ebbe la singolare sorte di essere ritratto da parecchi noti pittori, quali Enrico Scuri, nel 1825, Luigi Deleidi, detto il Nebbia, nel 1827, Faustino Boatti, nel 1831, ed ancora Luigi Trecourt e Giovanni Tiraboschi. Vivaci e interessanti sono anche alcune caricature, a matita ed anche acquerellate, tra le quali spicca quella di Giovanni Brentani, del 1854. Da ricordare diverse acqueforti  e punte secche del pittore Romeo Bonomelli, tra il 1897 e il 1941, ad illustrazione  di poesie vernacole.

Amico, stimato e protetto da personalità cittadine, nel 1827 fondò l’Accademia Filarmonica presso il Teatro della Fenice, di cui fu per poco tempo presidente e per la quale affittò un locale in Borgo S. Leonardo da adibire a teatro. L’anno successivo 1828 si dimise da ‘Socio contribuente’, forse per difficoltà finanziarie, e venne nominato ‘Socio onorario’.
Nel 1830 iniziò il praticantato di ragioniere e nel 1834 ottenne la patente di pubblico ragioniere, professione che esercitò per diversi anni soprattutto in Borgo S. Caterina. Fu così designato ‘poeta ragioniere’,  come egli stesso amava definirsi.

Nel 1853 si trasferì nella casa Ferrari di via Muraine 3, oggi via Cesare Battisti 5. Su questa casa fu apposta una lapide, a cura del Circolo Artistico Bergamasco, nel 1897, primo centenario della nascita del poeta, con una breve epigrafe.
Gli ultimi anni di vita furono tristi. Aveva anche tentato di avviare un piccolo commercio di quadri. La caricatura del Brentani infatti  lo rappresenta come ‘quadrista’, circondato da numerosi quadri, grandi e piccoli.

Morto il 17 gennaio 1858, assistito dal pittore Giovanni Tiraboschi e da don Michele Acerbi, parroco di Nese e amico d’infanzia, ebbe un modestissimo funerale seguito da pochi amici pietosi  e fu sepolto anonimo nel cimitero di S. Maurizio.
La sua produzione poetica comprende molti componimenti d’occasione in lingua italiana per personaggi vari, ma i pregi poetici di queste canzoni, sestine e sonetti sono molto modesti, nonostante l’uso corretto della metrica e della prosodia.

Ci piace ricordare un sonetto del 1843 per il “Reverendissimo signor abate Domenico Mazzi  Amadei fatto prevosto della Parrocchiale di Santa Caterina in Bergamo”.
Il maggior pregio del Ruggeri è la sua produzione poetica in vernacolo, dove  “seppe eccellere come poeta nel patrio dialetto”, come afferma il Belotti.  Osservò e descrisse con la sua vena facile e  gioconda la società contemporanea con una amichevole canzonatura dei vizi, difetti e debolezze, generalmente con sorridente ironia, senza eccessive durezze o punte avvelenate.

La sua opera si compone di molte rime disperse e di una raccolta di “Rime Bortoliniane del Rugger de Stabell”, edite tra il 1832 e il 1843 in quindici fascicoli. Iniziò inoltre nel 1834 un  “Vocabolario bergomense-italiano”, che non riuscì tuttavia a portare a compimento. Nel 1842, su richiesta del Mayr, compose una scena comica “Oh de la mula. Ol Tone meuliner e ‘l Bortol meulater”, che venne musicata da Girolamo Forini e rappresentata al teatro della Fenice dell’Accademia Filarmonica. Nel secolo scorso fu ripubblicata in versione per piano e canto da Giuseppe Bonandrini ed anche da Guido Zavadini.

Alle sue rime è riconosciuta sicura conoscenza del dialetto, vivacità di stile, scelta opportuna di scene e personaggi, dialoghi frizzanti.
Apprezzato e stimato nella giovinezza e nella maturità, fu quasi dimenticato negli ultimi anni. Nei decenni successivi invece, durante il secondo Ottocento e tutto il Novecento, da parte di singoli autori e varie istituzioni, come l’Ateneo di Bergamo, la Società Patriottica, il Circolo Artistico e la Biblioteca Civica, si sono ripetute riedizioni delle sue opere e pubblicazioni che ne illustrano positivamente la vita e la poesia.

Oggi due lapidi lo ricordano, una sulla casa natale, posta nel 1910, e l’altra sulla casa dove morì. Una via in prosecuzione di via Baioni è a lui intitolata. E’ noto infine il monumento in Piazza Pontida, eretto nel 1933, opera dell’ing. Angelini e dello scultore Remuzzi, la cui epigrafe, dettata da Sereno Locatelli Milesi, recita: Pietro / Ruggeri / da Stabello / 1797-1858 / Cantò in rima vernacola / l’anima / della gente / bergamasca. /Auspice il Ducato / di Piazza Pontida / MCMXXXIII  / A. XI.

11 – MARCO GOZZI

(1759 – 1839)

Il pittore Marco Gozzi nacque a S. Giovanni Bianco il 5 settembre 1759. Dotato di naturali qualità pittoriche divenne presto noto per le vedute paesaggistiche. Sposato nel 1792, andò a vivere in Valtellina ma successivamente si trasferì a Bergamo, nella parrocchia di S. Caterina, dove fece battezzare il 2 gennaio 1799 il figlio Carlo.

Visse quindi tra Bergamo e Milano, dove dimorò più volte dal 1810 e dove nella Galleria di Brera espose suoi quadri ed insegnò ricevendone una pensione annua vitalizia confermata dai vari governi succedutisi.
Ebbe commissioni pubbliche di opere illustranti luoghi importanti e caratteristici della Lombardia, oltre che di altre regioni, per cui dovette recarsi più volte in Valtellina, a Como, nel bresciano, ad Ancona, Roma e forse Napoli.

Divenne tanto famoso come vedutista da essere definito restauratore della pittura paesistica. Nel 1827 fu eletto socio dell’Ateneo di Bergamo e nel 1829 dell’Accademia di Brera. Molte sue opere sono oggi conservate nel Museo Sforzesco e nella Galleria d’Arte Moderna di Milano, nell’Accademia Carrara di Bergamo ed in altre raccolte private. A lui si ispirarono diversi pittori bergamaschi quali Pietro Ronzoni, Luigi Deleidi detto il Nebbia, il Fumagalli ed il Rosa.

Attivo fino a tarda età, morì a Bergamo nel 1839.
Gli sono attribuiti i due bei quadri alle pareti laterali del secondo altare a sinistra del nostro santuario. L’uno rappresenta l’ingresso nel borgo di S. Caterina di un distaccamento austro-russo che inseguiva truppe francesi il 14 aprile 1799. I soldati vi pernottarono “ma niuno vi soffrì un minimo disturbo”, come dice la didascalia scritta sul quadro.

Il fatto che gruppi di soldati  abbiano attraversato il borgo senza arrecarvi danni di violenze, ruberie e saccheggi fu considerato miracoloso ed attribuito all’intervento della Madonna Addolorata che si venera nel Santuario e che è dipinta in alto tra nuvole ed angeli. Il quadro è vivissimo nel rappresentare la colonna famosa, il santuario col suo campanile, case con balconi e finestre dalle quali affacciano figure incuriosite ma non spaventate, mentre in primo piano soldati e cavalleggeri sostano e si intrattengono con alcuni borghigiani.

L’altro dipinto, appeso alla parete di fronte, un ex-voto rappresentante un avvenimento ugualmente miracoloso, il passaggio di truppe francesi ed alemanne nel 1705 durante la guerra di successione spagnola, ricorda l’episodio straordinario di soldatesche straniere, anche se non nemiche, che passano per una città senza arrecare danni. Anche in questo quadro si vede la Madonna Addolorata che protegge dall’alto i suoi devoti.

L’autore fu molto probabilmente testimone diretto nel primo caso del 1799, mentre dovette affidarsi alla memoria storica ed alla fantasia per il secondo. Tuttavia anche in questo dipinto vi è molta vivacità, sicura padronanza della prospettiva ed abilità descrittiva.
Le due opere, oltre a documentare fatti sicuramente straordinari, sono una bella testimonianza della vita e dell’aspetto del nostro borgo all’inizio ed alla fine del secolo XVIII.

10 – PAOLINA SECCO SUARDO

LESBIA CIDONIA

(1746 – 1801)

Paolina Secco Suardo nacque nella casa paterna di via S. Salvatore l’11 marzo 1748 dal conte Bartolomeo Secco Suardo e dalla nobildonna Caterina Terzi. Crebbe in un ambiente famigliare  colto e raffinato.

Nella ricca libreria paterna la giovane contessina fece le sue prime, curiose e attente letture. La casa era frequentata da personaggi della nobiltà e della cultura bergamasca, dai quali la giovane Paolina derivò l’interesse per l’arte e la poesia e l’amore per lo studio col quale giunse ad un’ottima conoscenza delle lettere italiane e latine, nonché della lingua francese ed inglese.

Ragazza di notevoli doti e virtù umane, di ottima cultura e di particolare avvenenza attirò l’attenzione di molti giovani nobili, tra i quali si affermò il ricco conte Luigi Grismondi che la sposò, diciottenne, nel 1764. Fu matrimonio d’amore e di felicità, turbato però dalla morte dell’unico figlio maschio a soli due anni e mezzo d’età. Dalla maternità difficile e dal gravissimo dolore derivò alla giovane contessa Grismondi una salute irrimediabilmente rovinata, dalla quale fu tormentata per tutta la vita. La sua casa divenne un cenacolo di cultura e di vita di società, alla quale lei poteva dedicarsi, nonostante la salute malferma, dotata com’era di buona cultura, di intelligenza vivace e notevole fascino femminile, senza preoccupazioni di censo e di impegni famigliari.

Nel 1777 cominciò a viaggiare recandosi a Verona, ospite dei cugini conti Pompei. Qui si trovò benissimo, circondata dall’ammirazione, dall’affetto e dalla stima di personaggi illustri, tra i quali spiccava il Pindemonte con cui iniziò un rapporto di viva amicizia che si protrasse per tutta la vita con lo scambio di numerose lettere e poesie.
Nel 1778 fece un lungo e felicissimo viaggio a Parigi, accompagnata dal marito, dall’amico Beltramelli e dall’ambasciatore veneto alla corte francese.

La sua permanenza in Francia può considerarsi un vero trionfo. Conobbe e frequentò i più illustri personaggi. Da tutti ebbe tributi di ammirazione, sia per la cultura e abilità poetica che per la accattivante grazia e vivacità ed il notevolissimo fascino femminile. Il conte di Buffon, il grande naturalista, disse di non aver mai trovato “anima più bella in più leggiadre forme”. Il Franklin esclamò: “depositerei l’America ai suoi piedi”. L’anno successivo 1779 fu ammessa  nella prestigiosa accademia dell’Arcadia, nella quale assunse il nome di Lesbia Cidonia. Fu anche socia di parecchie altre accademie letterarie, oltre che di quella bergamasca degli “Eccitati”, dove fu acclamata il 9 gennaio 1780.

Del 1793 è il famoso viaggio a Pavia, invitata da quella illustre ed antica università dove ebbe onori quasi regali. Illustri scienziati andarono a gara nel manifestarle grande stima e ammirazione.  Personaggio centrale in tale occasione fu Lorenzo Mascheroni, lo scienziato e poeta bergamasco, amico ed estimatore della Grismondi. Professore di algebra e geometria e rettore dell’università, diede alle stampe in quell’occasione il poemetto “Invito a Lesbia Cidonia” con cui accompagna la gentile ospite nella visita al Museo Scientifico dell’università. L’operetta fu considerata “forse il più bello dei poemetti didascalici” tra i non pochi che in quell’epoca di grande attenzione per le scienze vennero composti. I rapporti tra Paolina e il Mascheroni furono molto cordiali anche se le opinioni politiche andarono  poi divergendo, essendo lo scienziato ammiratore e sostenitore del regime napoleonico, mentre la contessa ne vide quasi esclusivamente gli aspetti di violenza e di guerra, di cui aveva orrore. Cattolica educata a schietti principi religiosi, si sentiva profondamente offesa dalla conclamata irreligiosità dominante.

Dal 1797 si chiuse perciò nell’intimità della sua casa, tra pochi e fidati amici, isolandosi dal mondo esterno. Visse frequentemente nella vasta villa di Redona, dove si erge ancora imponente la gigantesca magnolia alla cui ombra scriveva, leggeva e riceveva i pochi e fedeli amici.

Morì serenamente e cristianamente nella notte sul 27 marzo 1801, all’età di 55 anni da poco compiuti.
Fu persona di notevoli qualità e di alte virtù umane e morali. Ebbe la stima e la sincera ammirazione di molti personaggi eminenti del tempo. Il grande architetto bergamasco Giacomo Quarenghi scambiò un notevole numero di lettere con lei che divenne un po’ la sua confidente.
Il Mascheroni la definì “Mater Patriae”, “Immortale Lesbia” e “Quarta alle Grazie e decima alle Muse”. In suo onore fu anche coniata una medaglia con una corona di alloro e rose e la legenda “Minerva Venusque in una”.

Paolina Secco Suardo scrisse molto in prosa ed in versi. Le molte lettere sono di carattere privato e di giudizi letterari. Hanno forma molto elegante, corretta, vivace, personale. I versi sono tutti, o quasi, di occasione. Usò diversi metri, ma soprattutto endecasillabi sciolti, sonetti e canzoni. Grande poetessa non fu, ma abile e feconda verseggiatrice, corretta, elegante, sincera anche se non profondamente ispirata. Ebbe però un vivo senso della natura.

Oggi è ricordata dalla lapide sulla casa natale, dal famoso “Invito” del Mascheroni e dall’Istituto Magistrale cittadino. A lei è dedicata, col nome arcade di Lesbia Cidonia, una via del  nostro borgo nel quale, nel quartiere di Redona, era ed è tuttora la villa Grismondi da lei frequentemente abitata.

9 – GIACOMO CARRARA

(1714 – 1796)

Il conte Giacomo Carrara nacque a Bergamo nel 1714 da un’antica famiglia originaria di Serina.
Battezzato il 9 giugno 1714 nella parrocchia di S. Alessandro della Croce col nome di Giovanni Giacomo, chiamato poi sempre solo Giacomo, era figlio primogenito del conte Carlo Antonio e di Maria Giacinta Rillosi.

Giacomo ed il fratello minore Francesco iniziarono gli studi presso il cittadino Collegio della Misericordia, gestito allora dai Gesuiti. Nel 1737 Francesco si trasferì a Roma proseguendo gli studi presso il Collegio Ceresoli, avviandosi alla carriera ecclesiastica e divenendo poi prelato della Fabbrica di S. Pietro nel gennaio del 1756.
Fin da giovane Giacomo si era dedicato allo studio dell’arte e della cultura artistica  e letteraria e fino al 1755 la sua vita trascorse senza avvenimenti di particolare rilievo nella quotidiana applicazione allo studio ed a una attività indirizzata alla conservazione e valorizzazione del patrimonio della città. Una decisa svolta alla sua vita avvenne con la morte del padre nel febbraio del 1755. Erede col fratello di un cospicuo patrimonio, potè soddisfare le sue ambizioni di collezionista con l’acquisto di libri, disegni, medaglie e dipinti.

Nel gennaio del 1758 fece un viaggio a Roma dove era atteso dal fratello che vi godeva di una posizione di riguardo nell’ambiente ecclesiastico e culturale. Nel 1759 potè sposare la cugina Marianna Passi, dopo aver ottenuto la dispensa dalla Sacra Rota, necessaria per i matrimoni tra consanguinei. Non ebbe però eredi poiché un figlio Carlo, nato nel 1761, morì in tenera età.

Nel corso degli anni il Carrara andò sempre più dedicandosi alla frequentazione di famose gallerie, delle botteghe dei pittori ed allo studio sistematico delle testimonianze pittoriche nelle chiese e nei palazzi, conseguendo quindi una personale e preziosa esperienza ed accrescendo notevolmente l’entità delle sue collezioni.
Decise così di dare una collocazione degna al pregevole numero di quadri ed altri oggetti preziosi attinenti alle belle arti, e di costituire una scuola di pittura oltre ad una galleria dove esporre le sue collezioni all’ammirazione pubblica.

Perciò, non bastando le case nel borgo di S. Antonio, di Ranica e in Borgo Palazzo, nel 1766 comperò un corpo di case nel borgo di S. Tomaso, per fondarvi la scuola di pittura e collocarvi la sua ormai ricca quadreria.
Affidò all’architetto Costantino Gallizioli la costruzione dell’edificio secondo i dettami dell’arte neoclassica. In una lettera del 28 gennaio 1784 il Carrara scriveva all’abate Serassi: ”La fabbrica della mia galleria, che credo non scomparirebbe in Roma, è composta di undici sale per collocarvi li quadri senza altre diciannove stanze o venti che debbono servire per il custode, e per riporvi li marmi, busti antichi che ho comperato a Venezia”.

Il 20 aprile 1796 il conte moriva e lasciava per testamento come erede universale la Galleria  e la Scuola di Disegno, affidandone la direzione ad una Commissarìa composta da Don Girolamo Adelasio, presidente, dalla vedova Marianna Passi Carrara e da altre tre personalità della cultura bergamasca, col compito anche di esser gli esecutori testamentari impegnati a garantire il futuro dell’istituzione.

Il bel palazzo, posto nella piazza dedicata al fondatore Giacomo Carrara, facente parte del territorio della nostra parrocchia, continuò per tutto il secolo XIX e XX ad ospitare la Scuola d’Arte e la Galleria che andò arricchendosi nel tempo con altre donazioni, costituendo un prezioso e prestigioso patrimonio della nostra città. Dalla Scuola di Disegno uscì una numerosa schiera di artisti che onorarono con le loro opere l’arte e la nostra Bergamo.

8 – GIOVANNI BATTISTA CANIANA

(1671 – 1754)

Giovanni Battista Canina è importante per la parrocchia di S. Caterina perché fu l’architetto dell’attuale prepositurale spostandone l’asse direzionale da sud a nord anziché da occidente ad oriente, come era prima secondo le antiche prescrizioni. I lavori, iniziati con la posa della prima pietra il 18 settembre 1725, si conclusero con la consacrazione del 2 marzo 1738 da parte del vescovo Antonio Redetti, come è testimoniato dalla lapide sotto il pulpito. Il progetto della chiesa, a detta del Fornoni, “ha un vaso armonico che rivela doti non comuni del suo autore”.

L’artista era nato a Romano di Lombardia il giorno 8 maggio 1671 da Antonio, artigiano di falegnameria. Ancor giovane si fece apprezzare per lavori di tarsia e bassorilievi. Collaborò con i più noti scultori del tempo, dal Capodiferro al Fantoni, lasciando notevoli tracce del suo ingegno in varie chiese della bergamasca, dove scolpì paliotti d’altare, confessionali e crocifissi.
Più che scultore tuttavia fu architetto, progettando e costruendo, oltre alla parrocchiale di S. Caterina, la chiesa del Galgario e quella di S. Michele all’Arco in Bergamo ed altre in varie località della provincia, come Telgate, Cologno, Scanzo, Alzano e numerose altre.

Sono sue anche alcune importanti opere civili, quali il palazzo Terzi, presso il liceo in Città Alta, e particolarmente il progetto dell’antica fabbrica della Fiera, costruita tra il 1732 e il 1734, di cui fu anche l’autore della famosa fontana dei Tritoni.

Morì il 5 maggio 1754, lasciando due figli, Giuseppe e Caterina, che seguirono le orme del padre. Infatti Giuseppe fu apprezzato scultore e intarsiatore come la sorella Caterina, sua collaboratrice. E’ infatti opera loro anche l’altare maggiore in legno policromato della nostra chiesa parrocchiale. Le opere di tarsia di Caterina sono tipiche ed originali per esservi inserite conchiglie e madreperle lavorate. Ma Caterina fu soprattutto famosa per l’arte del ricamo, lasciando testimonianza della sua valentia in opere conservate in chiese di Bergamo, Alzano, Brescia, Crema e Venezia. A Caterina Caniana è intitolata in Bergamo l’Istituto Professionale per i Servizi Commerciali.
Tra largo Tironi e via Moroni si snoda una via “dei Caniana” a ricordo di questa famiglia di artisti bergamaschi.

7 – ALESSANDRO LANFRANCHI

(1662 – 1730)

Nato nel borgo di S. Caterina il 3 luglio 1662, come risulta dalle carte d’archivio della parrocchia, Alessandro Lanfranchi fu tenuto a battesimo dal pittore Giuseppe Cesareo, che fu anche il suo primo maestro.
Ancor giovane, ritenendo di poter più utilmente addestrarsi con altri più esperti artisti, si recò a Roma dove, sotto la guida di un valente maestro, si perfezionò nel disegno e nel colorito.

Tuttavia fu a Venezia, dove si recò poco dopo, che maturò la sua personalità di artista studiando ed ammirando i grandi pittori veneti e soprattutto Paolo Veronese che rimase il suo modello costante.
Nel 1687 tornò a Bergamo dove dipinse tele di soggetto sacro per varie chiese ed affreschi in case nobiliari della città. E’ infatti del 1695 il bel quadro, di cm. 200 per 100, dedicato alla “Madonna in attesa” dipinto per la parrocchiale di S. Caterina ed ora conservato nella sagrestia grande.

Verso la fine del secolo fece ritorno a Venezia, ospite di ricchi ed eminenti cittadini, tra i quali Francesco Bonlini e Melchiorre Fontana, e nella casa di quest’ultimo visse fino alla morte, sempre benvoluto. Con affreschi di carattere mitologico, oltre che sacro, illustrò molti palazzi nobiliari.

Attivo fino a tarda età, morì per grave malattia il 5 febbraio 1730 nella casa ospitale del Fontana. Oltre alle sue non moltissime opere sparse tra Venezia e Bergamo, alcune si trovano anche nel Museo di Varsavia.
Viene descritto come piccolo di statura, vivace, lesto, allegro e generoso, per cui era molto amato ed apprezzato. Chiamato, per la sua bontà, Angelo della Pace, vestiva da abate e fu anche detto Abate Saetta perché era stato colpito da un fulmine mentre stava affrescando una stanza, rimanendo tramortito ma incolume.

Delle sue opere la critica rileva la maestrìa nel disegno, nell’invenzione e nel colorito, la sontuosità degli abbigliamenti e la nobiltà delle architetture, che si ispirano al grande Veronese.
Di lui, come già detto, esiste nella nostra parrocchia la bella tela della “Madonna in attesa”. Un’altra opera  rappresentante la “Vergine con Santa Caterina e altri Santi” sarebbe stata dipinta ancora per la nostra chiesa parrocchiale, ma ora sembra perduta.
Ad Alessandro Lanfranchi è intitolata una breve via trasversale alla via Crescenzi.

6 – VITTORE GHISLANDI

FRA GALGARIO

(1655 – 1743)

Vittore Ghislandi, il grande pittore noto col nome di Fra Galgario, nacque a Bergamo, in borgo S. Leonardo, ai primi di marzo del 1655 e fu battezzato il 4 dello stesso mese come Giuseppe.
Il nome Vittore fu assunto in seguito, al momento di prendere i voti.

Col padre Domenico, buono e apprezzato affrescatore, e successivamente con i pittori Giacomo Cotta e Bartolomeo Bianchini, fiorentino ma residente a Bergamo, studiò per quattro anni disegno e arte pittorica.
Nel 1675 a causa, pare, di un contrasto col padre, andò a Venezia, nel convento di S. Francesco da Paola dove prese i voti, quale frate paolotto, col nome di Vittore. Per umiltà ed anche per poter maggiormente esercitarsi nella incominciata sua professione, non volle esser sacerdote ma contentassi di entrare nel numero dei laici, come dice il Tassi.

Dopo un breve rientro a Bergamo nel 1688, rimase a Venezia approfondendo la sua cultura letteraria ed artistica, oltre l’esperienza pittorica alla scuola di Sebastiano Bombelli, allora ritrattista di prestigio, dedicandosi inoltre allo studio dei grandi artisti veneziani, quali soprattutto Tiziano e Paolo Veronese.
Durante la sua permanenza nella città lagunare fu intensa la sua attività particolarmente come autore di ritratti, sempre più apprezzati e ricercati.

Dopo il 1702 rientrò a Bergamo, dove si stabilì nel convento del Galgario, dal quale prese appunto il nome. Del periodo bergamasco sono i numerosissimi ritratti, talvolta veri capolavori, che gli venivano commissionati dalle più nobili famiglie cittadine, dai Secco Suardo agli Albani, dagli Asperti ai Benaglio, ai Bettami, ai Camozzi, ai Colleoni, ai Marenzi, ai Moroni, Pesenti, Solza, Tassis, nonché da personaggi di importanza politica e religiosa, italiani e stranieri, come il principe di Löwenstein o il conte Colloredo, il conte di Daun, il capitano Agostino Barbarigo e il podestà di Bergamo Paolo Querini. Diversi sono anche i ritratti di religiosi come il Parroco di Taleggio Francesco Biava e i cardinali Boncompagni e Priuli. Particolarmente famosi  sono poi alcuni suoi autoritratti. Le sue opere sono conservate in molte gallerie private e nella nostra Carrara.

Dipinse fino agli ultimi giorni della sua lunga vita e morì di 88 anni ai primi di dicembre del 1743 e fu sepolto nella chiesa del suo  convento.
Era di statura media e di aspetto piacevole. Umile e modesto, assai religioso, era stimato e rispettato da quanti lo avvicinavano.
Del valore e dell’originalità della sua pittura sono testimoni molti giudizi di critici e il notevole numero di pittori bergamaschi che gli furono allievi o cercarono di imitarne l’arte, senza tuttavia che alcuno sia mai riuscito a raggiungerne la fama.

Viene qui ricordato perché il suo convento del Galgario, dove visse più di quarant’anni, si trovava nel territorio della nostra parrocchia di S.Caterina, che tuttavia non conserva alcuna sua opera.
A lui è giustamente intitolata una via del borgo.

5 – GIUSEPPE CESAREO

(1630 – 1698)

Figlio del pittore Marcantonio, anche Giuseppe Cesareo, nato da una seconda moglie del padre il 16 dicembre del 1630, come risulta dai registri parrocchiali, visse nel borgo di S. Caterina seguendo le orme paterne nell’arte pittorica. Di lui, come della famiglia, piuttosto scarse sono le notizie relative alla vita.
Restano molte opere, tutte di carattere religioso, esistenti in almeno una quindicina di chiese e conventi di Bergamo ed in più di dieci nella provincia, oltre a poche altre tele presso collezioni private.

I temi delle opere si ripetono e riguardano episodi del Vangelo relativi alla vita, ai miracoli e alla passione di Cristo, alla Vergine col Bambino,  come Madonna del Rosario, in Sacre Conversazioni con Santi, con S. Anna e S. Gioacchino, nello Sposalizio. Alcuni santi sono più volte rappresentati, come S. Caterina d’Alessandria, S. Antonio da Padova, S. Nicola, i martiri Fermo e Rustico, S. Bernardino e S. Alessandro.

La sua attività durò dal 1658 al 1698, data della morte, come si rileva dalla maggior parte delle opere firmate e datate. Esistono anche diversi quadri la cui attribuzione resta incerta.
La critica lo ritiene inferiore al padre e seguace dei modi del Talpino. Il Tassi afferma che: “istradato dal padre al disegno, riuscì di qualche lode”. Lo dice tuttavia: “affaticato con esito poco felice nell’imitare o nel copiare il Salmeggia”.

Negli ultimi anni il suo stile si allontanò alquanto dal maestro subendo invece la probabile influenza del pittore romano Ciro Ferri che nel 1665 era stato chiamato, con altri artisti, per la decorazione pittorica di S. Maria Maggiore in Bergamo.

Di Giuseppe Cesareo esistono nella nostra parrocchia tre belle, grandi tele dedicate a S. Caterina: una di cm. 190 per 145, datata 1658, illustra la Decollazione della santa, una seconda, di cm. 190 per 145, datata 1658, presenta S. Caterina al supplizio della ruota, ed una terza, nella sala Bardoni, di cm. 116 per 110, è dedicata all’Inanellamento della santa.
Se il valore puramente artistico non si può considerare eccellente, queste opere tuttavia, come tante altre, hanno illustrato per secoli la Biblia Pauperum, aiutando e sostenendo la fede semplice ma genuina degli abitanti del nostro borgo.

4 – MARCANTONIO CESAREO

(1600 – 1666)

Di Marcantonio Cesareo vi sono notizie piuttosto scarse, dovute prevalentemente a Francesco Maria Tassi, scrittore d’arte del secolo XVIII. Ebbe a maestro Enea Salmeggia , il Talpino, anche suo stretto parente. Secondo il biografo ebbe tre mogli e dalla seconda nacque il figlio Giuseppe.

Fu un fecondo autore di quadri di soggetto religioso. Sue opere, datate tra il 1631 e il 1660, sono conservate in varie chiese della bergamasca. Molte di esse sono chiaramente ispirate al suo maestro Salmeggia, ed alcune sono di dubbia attribuzione, oscillante appunto tra il Cesareo e il Talpino. Almeno una ventina sono sparse tra Almè, Bottanuco, Brembate, Casnigo, Mariano al Brembo, Mezzoldo, Rosciano, Presezzo, Rosciate e Villa d’Almè. Altre si trovano in chiese di Bergamo: S. Alessandro in Colonna, Santa Grata inter vites, S. Pancrazio, monastero di Astino, oltre ad una nel Seminario Vescovile ed altre in collezioni private.

Nella nostra parrocchiale abbiamo una grande e importante tela, firmata e datata 1651, che rappresenta la Madonna in gloria col Bambino e i santi Alessandro, Nicolò, Caterina d’Alessandria, Antonio da Padova, Francesco d’Assisi ed altro santo. Si trova sopra la parete di ingresso ed ha la rispettabile dimensione di cm. 300 per 420.

Nella chiesa dei Celestini vi è un’altra grande pala di cm. 450 per 320, firmata e datata 1660, rappresentante la Vergine col Bambino e angeli in gloria ed i santi Celestino papa, Nicola da Bari e due santi vescovi. Altra opera di sua sicura attribuzione, dopo che per molto tempo era stata considerata del Salmeggia, è la figura dell’Eterno Padre sopra la pala dell’altare maggiore del Santuario.

I giudizi critici si rifanno in genere al Tassi che scrive: ”riuscì uno dei più bravi discepoli di Enea Salmeggia. Sotto di lui apprese certa maniera di disegnare e forza di colore, che a prima veduta alcune sue opere sono state credute di quel sublime Maestro, benché siavi in realtà notabile differenza”.
La data della morte sarebbe da fissarsi nel 1666, anche se altri indicano il 1660 od il 1690.

3 – GIACOMO ANSELMI

( sec. XVI )

Il pittore Giacomo Anselmi viene ricordato quasi esclusivamente per essere stato l’autore dell’affresco ora sull’altare maggiore del santuario dell’Addolorata nel borgo di S. Caterina.

Lo scrittore e raccoglitore di antichità conte Francesco Maria Tassi, nella sua celebre opera “Vite di pittori, scultori e architetti bergamaschi”, scritta nella seconda metà del secolo XVIII, dedica all’Anselmi una pagina nella quale tuttavia riferisce poche e non sempre precise notizie biografiche. Scrive infatti: Viveva circa il fine del secolo XV, nel borgo di Santa Caterina, Giacomo Anselmi, del quale è cosa conveniente e doverosa di far memoria, sì perché fu pittore di qualche considerazione, sì perché fu egli che dipinse la miracolosa immagine di Maria Vergine dello spasimo col figlio Gesù morto fra le ginocchia, che ora si venera nella chiesa a lei dedicata nel Borgo di Santa Caterina.
Si trattava invero non del XV secolo (‘400) ma del successivo XVI (‘500) perché, secondo il Fornoni, il pittore dipinse a fresco su una parete di una casa verso l’antico ponte della Stongarda la miracolosa immagine il 27 luglio 1597.

Dell’Anselmi non si conoscono altre opere se non una bella tela rappresentante la Vergine col Bambino tra San Giuseppe e San Carlo. Il quadro è firmato e datato Jacobus de Anselmis –1597. Si trova nell’altare a sinistra del Tempio dei Caduti di Sudorno, dove fu posto quando il tempio sostituì la vecchia chiesetta dedicata alla Madonna. Singolare è il fatto che vi è rappresentato San Carlo Borromeo quando ancora non era stato canonizzato. Lo sarà infatti solo il 1° novembre 1610. Il Tassi cita l’opera definendola “di corretta maniera e buon colorito”.

Non si hanno ulteriori notizie né della vita né di altre opere dell’Anselmi, tranne un documento recentemente ritrovato nell’archivio parrocchiale di S. Caterina che riferisce di un pagamento fatto, nei primi anni del ‘600, ad un Giacomo Anselmi, da identificarsi quindi con tutta probabilità col nostro, per aver dipinto un velo della Madonna, senza più precise indicazioni.

La fama dell’Anselmi è quindi legata agli avvenimenti succedutisi dopo il 18 agosto 1602, quando, come dice il Calvi nelle sue famose “Effemeridi”, una stella formando tre risplendenti lumi apparve nel bel mezzogiorno e andò a colpire l’immagine dipinta sul muro. Questa, già guasta in alcune parti si trovò senza colori umani perfettamente reintegrata. Seguirono grazie miracolose nel giorno stesso e frequenti guarigioni prodigiose in seguito per cui la popolazione chiese ed ottenne che si costruisse un santuario che, grazie alla fede ed alla generosità dei borghigiani, fu rapidamente portato a termine fra il 1603 ed il 1605 con il trasporto sull’altare maggiore del muro affrescato.

La definizione data dal Tassi di pittore di qualche considerazione, invero piuttosto riduttiva, e la mancanza di altre notizie sulla vita e sulle opere dell’Anselmi fanno ritenere che effettivamente gli avvenimenti succedutisi nella storia ormai quattro volte centenaria del nostro Santuario hanno dato al pittore una fama ed una notorietà che vanno forse bene al di là della valentia artistica.

L’Anselmi comunque, borghigiano di Santa Caterina, ha dipinto quell’affresco che ha commosso tante generazioni di fedeli ed ancora continua ad essere stimolo e causa non ultima di preghiere e di fede nel nostro Santuario.
Sarebbe perciò augurabile che a lui venisse intitolata una via del borgo.

2 – ALBERICO DA ROSCIATE

(1290 – 1354)

Altro famosissimo giureconsulto bergamasco della prima metà del XIV secolo fu Alberico da Rosciate. Di nobile famiglia che comprendeva numerosi giudici e giureconsulti, nacque nel 1290 forse a Rosciate o forse, secondo altre testimonianze, a Villa di Serio, dove la sua famiglia si sarebbe trasferita, o addirittura a Bergamo in una casa nell’alta città, nella via detta Ripa dei Capitani, della vicinia di S. Eufemia, in quanto il padre, Tassio Rosciati, era console, anziano e giudice della città fin dal 1282.

Dotato di felice ingegno, ottima memoria, indole seria e riflessiva, Alberico compì gli studi all’università di Padova, dove già aveva studiato il cardinale Guglielmo Longo. Ottenuta la laurea dottorale in utroque jure (diritto civile e canonico), si recò a Roma dove esercitò l’avvocatura e divenne presto consultore e legale della Curia pontificia, che servì con sicura competenza e grande abilità oratoria e diplomatica in occasione di questioni intricate e difficili.

Passò poi a Bologna e quindi, nel 1328, tornò alla sua Bergamo. In quei tempi turbolenti operò con grande saggezza, riconosciuta da tutti, per conciliare, risolvere contrasti tra signori e città, papi e imperatori. Nella nostra città trattò col re Giovanni di Boemia, entrato in Bergamo nel 1331, e compilò lo Statuto cittadino, che durò poi per ben cinque secoli. Anche col nuovo signore Azzone Visconti, che aveva conquistato la città, partecipò alla parziale revisione degli statuti cittadini. Fu quindi inviato in delicate ambasciate alla corte pontificia in Avignone tre volte, nel 1335, 1337 e 1340, per risolvere annose questioni che avevano anche provocato la scomunica da parte del papa.

In Bergamo ebbe incarichi nelle amministrazioni pubbliche e nel Consiglio della Misericordia (MIA), di cui fu riconfermato ministro nel 1347. Nel 1350 fece un pellegrinaggio a Roma per il giubileo con la moglie e tre figli, dopo di che si ritirò in una casa di campagna nel vico di Plorzano, ora Borgo S. Caterina, dove visse gli ultimi anni dedicandosi in solitudine agli studi preferiti e nella venerazione della memoria del cardinal Longo, che lì aveva fatto erigere la chiesa e il convento di S. Nicola.

Le sue numerose opere trattano non solo di diritto e legislazione ma anche di storia, mitologia, grammatica e oratoria. Di particolare interesse è la sua traduzione in latino del commento  in volgare di Jacopo Della Lana sulla “Commedia” di Dante.

Morì il 14 settembre 1354. Lasciò per testamento i suoi beni alla famiglia, sette figli di cui due femmine, ed altri parenti, a varie opere di misericordia, alla MIA ed alla chiesa dei Celestini, dove  volle essere sepolto.
Nel 1868 le sue ceneri furono trasferite in S. Maria Maggiore dove due lapidi, una in latino del 1355 e l’altra in italiano del 1868, ricordano le vicende e gli alti meriti del nostro giureconsulto.
Alla sua memoria è dedicata una via del borgo.

1 – CARDINALE GUGLIELMO LONGO

(1240 – 1319)

Tra il XIII e il XIV secolo, cioè fra il Duecento e il Trecento, visse uno dei personaggi bergamaschi più autorevoli e famosi nella storia della Chiesa. Guglielmo Longo o Longhi, era nato ad Adrara S. Martino dalla nobile, potente e ricca famiglia De Longis, ricordata pure come Alessandri, della quale fecero parte anche alti prelati illustri al loro tempo.

Nato nel 1240 studiò all’università di Padova dove conseguì la laurea in utroque iure, cioè nel diritto civile e canonico, e quindi a Parigi. Addetto alla Curia romana con il papa Clemente V nel 1265, passò nel 1270 a Napoli al servizio del re Carlo I d’Angiò che lo nominò suo consigliere e gran cancelliere del regno, carica che esercitò anche col successore Carlo II.

Nel 1294 il nuovo papa Celestino V, Pietro da Morrone, lo nominò cardinale col titolo di S. Nicola in carcere Tulliano. Come tale fu al servizio di cinque papi dai quali ebbe affidati importantissimi e delicati incarichi che svolse e portò a felice conclusione con la sua eccezionale dottrina e abilità diplomatica. Nel 1305 seguì la corte pontificia ad Avignone dove visse fino alla morte, nel 1319, continuando ad agire a favore e per incarico della curia papale. Tra gli altri compiti di grande responsabilità, ebbe nel 1318, dal papa Giovanni XXII, l’ufficio di raccogliere informazioni per la canonizzazione di Tommaso d’Aquino, che avvenne poi nel 1327, senza perciò che il cardinale potesse avere la gioia di vedere coronato il suo lavoro.

Tra i vari documenti della sua dottrina spiccano il Libro Sesto delle Decretali e la Collectio Clementina,che egli compose e diresse e che restarono in  vigore fino al 1917 quando fu promulgato il nuovo Codex dal papa Benedetto XV.
Attivo e generoso fu il suo impegno in favore di opere religiose e di carità, come la ricostruzione della chiesa e del chiostro dell’abbazia di Pontida, la fondazione dell’ospedale di S. Spirito e la  costruzione della cappella della chiesa di S. Francesco, dove volle poi essere sepolto.

Ma ciò che più interessa di lui per il nostro borgo è la fondazione su alcune sue terre del vico di Plorzano, ora borgo di S. Caterina, della chiesa e monastero di S. Nicolò, consacrati, alla sua presenza, nel 1311 dal vescovo di Bergamo Cipriano Alessandri. Vi si stabilirono i frati Celestini dell’ordine fondato nel 1264  da Pietro da Morrone, prima di essere papa Celestino V.

La tomba e il mausoleo del cardinal Longo, opera di Ugo da Campione, rimasti nella chiesa di S. Francesco fino ai primi dell’800, quando la chiesa fu soppressa dalle armate napoleoniche, furono trasportati nella  basilica di S. Maria Maggiore in città alta, dove una lapide posta dal Consiglio Comunale nel 1868  ricorda l’avvenimento e tramanda alla memoria la nobiltà, la vastità della dottrina, l’eminenza del grado e la generosità del cardinal Longo.
Una via del borgo è a lui intitolata.

 

a cura del Prof. Luigi Tironi