BORGO INTERVISTE – 14^ PUNTATA – DON FALABRETTI

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Falabretti don Michele 2016- 01

Don Michele Falabretti in una foto recente con papa Francesco in Piazza San Pietro.

Anzitutto Le chiedo di raccontare brevemente la sua infanzia e giovinezza: dove è cresciuto, quali studi ha fatto, la frequentazione dell’oratorio ecc…

Sono nato e cresciuto nel Borgo, con nelle orecchie (fin da piccolo) le grida dell’Atalanta a cui non potevo che affezionarmi e ancora di più con negli occhi i “tre campanili”. A dirla tutta quello più vicino a casa è quello del Santuario nel quale fin dalle elementari andavo a Messa ogni giorno e facevo il chierichetto. Ma molto presto tutto il Borgo è diventato casa per me: la chiesa parrocchiale (dove tutto il gruppo dei chierichetti prestava servizio) e l’oratorio che frequentavo tutti i giorni. Sono un bambino degli anni ‘70: le trasmissioni televisive iniziavano a pomeriggio inoltrato quando i compiti erano finiti da un pezzo (non si andava a scuola il pomeriggio) e la voglia di giocare ti portava fuori di casa a cercare gli amici. L’oratorio era lì, con il curato seduto sotto al portico con un libro in mano e pronto a scambiare quattro parole con tutti.

Era una comunità (mi pare) molto diversa da quella di oggi. I preti erano uno “squadrone” ben assortito (il parroco, tre vicari attorno alla chiesa parrocchiale, il curato all’oratorio, due preti al santuario e un cappellano delle suore Sacramentine); tutti praticamente a pieno servizio. Ci si conosceva tutti, soprattutto perché le persone vivevano nel Borgo da più di una generazione. Una comunità vivace e con legami molto forti; era un piccolo mondo. Era una comunità molto bella, anche se aveva i suoi difetti. Non voglio certo dire che oggi non lo sia, anzi. Semplicemente ci torno poco e quindi la conosco poco. Quando ne parlo, lo faccio come se fosse il posto più bello del mondo anche se non ci vivo più: è ovvio che dentro di me è rimasto vivo l’immaginario di quando ero piccolo e giovane.

Sono andato all’Asilo Garbelli (allora si chiamava ancora così); alle elementari Alberico da Rosciate, alle medie Petteni. Via Celestini era sinonimo di Oratorio e della porta del Battista, quella che mandava sempre un buon profumo di pane e da cui ti arrivava sempre un saluto e una battuta.

In Oratorio ho fatto tutto: il catechismo, il tempo libero, i giochi, l’estate, gli amici. Sono stato un bambino e un ragazzo, un animatore e un educatore: ho imparato a vivere e a stare con gli altri. Dopo la terza media sono entrato in seminario. Ma tornare a casa in famiglia, all’oratorio e in parrocchia era una necessità da svolgere tutte le settimane, come una boccata d’aria. In Seminario ci prendevano in giro: “voi di Santa Caterina…”.

Sto scrivendo in aeroporto: mi fermo qui, perché don Andrea mi ha chiesto di consegnare presto e soprattutto perché mi accorgo che è un attimo prendere il volo (dei ricordi) e perdere l’aereo.

 

Poi Le chiederei di raccontare il suo percorso da sacerdote negli anni, fino ad arrivare ad oggi quando occupa (mi corregga se sbaglio) il ruolo di responsabile del servizio nazionale per la pastorale giovanile.

La mia vita di prete, nell’elenco degli incarichi, si racconta in fretta.

Nel 1993 sono diventato prete e curato di Osio Sotto. Nel 2004 monsignor Amadei mi chiese di andare in Curia come direttore dell’ufficio per la pastorale dell’età evolutiva (quello che si occupa degli oratori). Mi fregò in cinque minuti: era il giorno dell’Apparizione, verso mezzogiorno. Mi disse: “So che ti mancherà la parrocchia, ma ti chiedo questo sacrificio”; mi venne spontaneo dirgli di sì. Nel 2012, una sera di giugno, mi chiamò monsignor Crociata, segretario generale della Conferenza episcopale italiana e chiedendomi di andare a parlare con lui, mi disse che aveva già parlato con il vescovo Francesco.

Praticamente da prete mi sono sempre occupato di ragazzi e di giovani, ma l’ho sempre fatto pensando a tutta la comunità parrocchiale: è una cosa che ho imparato in Santa Caterina. Oggi giro l’Italia, nelle diocesi. Ma quando parlo alle persone rivedo il campetto dell’oratorio, il cineteatro (che ho conosciuto bene prima delle ristrutturazioni), il campo dell’Excelsior, il Gusto e l’Angiolino che vanno allo stadio con il quadro dell’Addolorata per i fuochi d’artificio.

“Il mondo è una gran Bergamo”, diceva Arlecchino. Ma per me è già troppo: da Piazzale Loverini al Ponte, può bastare…

 

Poi Le vorrei chiedere un giudizio su Borgo Santa Caterina: le sue sensazioni sulla comunità del Borgo, sulle iniziative che hanno luogo come per esempio i festeggiamenti per l’Apparizione.

Quando in Italia si parla della fede popolare, sembra che sia un’esperienza tipica del Sud. Io sorrido sempre, pensando a cosa è stato per me crescere nella parrocchia con il santuario. La Madonna non è per noi solo il 18 di agosto. È un ricordo quotidiano, una preghiera per le fatiche degli amici e l’affidamento delle proprie, è una confidenza accessibile a tutti (ricordo ancora quando da bambino vedevo due persone recitare il rosario stando fuori, alla grata della facciata prima di andare… al lavoro). Da piccolo vicino a me abitava un nonno che tutti i giorni andava al Circolo per il “bianchino” con gli amici; ma prima era d’obbligo la visita alla Madonna.

Se è sopravvissuta la festa è soltanto perché il legame con le persone della comunità è vero e profondo: la festa è solo la manifestazione esterna di questo legame. E anche se conosco poco la comunità di oggi, questo vorrei augurare.

Che attorno a una casa e a una Madre, ancora, trovi forza e idee per essere una famiglia animata dal Vangelo.

Mattia Paris

 

Dal bollettino parrocchiale di maggio 2016